La legislatura ai titoli di coda. E con il voto locale (l'isola ma non solo) si possono rompere equilibri già fragili
La recita si è fatta scadente, abbassiamo il sipario», disse il capogruppo alla Camera della Dc Mino Martinazzoli nell’aula della Camera invitando il suo partito a non votare per un governo composto esclusivamente da ministri del suo partito, e così, con questo paradosso politico, finì la nona legislatura. Con le elezioni anticipate terminava il mandato di un Parlamento che doveva fare le riforme e che era stato segnato dalla presidenza del Consiglio di un giovane leader ambizioso che voleva cambiare tutto a costo di destabilizzare il sistema. Era il 1987, trent’anni fa, alla fine di quel periodo le riforme non si fecero e il socialista Bettino Craxi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi. E oggi, vista su un piano storico, si può dire che il sipario si abbassò su un’intera fase politica.
Lo stato d’animo degli inquilini del Palazzo di oggi non è molto diverso. La legislatura partita con le elezioni-shock del 25 febbraio 2013 finisce com’era cominciata: nel caos. «Un minuto dopo l’approvazione della legge elettorale saremo al tutti a casa», scuoteva la testa un potente senatore del Pd all’inizio della settimana dei cinque voti di fiducia sul Rosatellum (bis). Intorno il deserto, la stanchezza, l’assalto delle opposizioni ai banchi della presidenza, gli occhi bendati, le manifestazioni di piazza. Le scene sgangherate che precedono i titoli di coda.
Il tutti a casa è arrivato. Dopo cinque anni, tre governi, due presidenti della Repubblica, due leggi elettorali (una, l’Italicum, decapitata dalla Corte costituzionale), una riforma costituzionale bocciata dagli elettori con il referendum del 4 dicembre 2016. E ora, la nuova legge elettorale stabilisce l’inizio della lunga corsa verso un voto che preoccupa l’intera Europa. È stato raggiunto l’obiettivo di andare alle urne con regole uguali per Camera e Senato, la condizione minima indicata ai partiti da Sergio Mattarella dieci mesi fa, ma nessuno si fa illusioni che la legge elettorale appena sfornata dal Parlamento possa durare più di un giro. Nella prossima legislatura il tormentone ricomincerà. È stato ormai stabilito un precedente: a differenza del resto d’Europa, la legge elettorale italiana è materia flessibile, una plastilina che si adatta alle esigenze dei partiti e dei rapporti di forza del momento, si può votare anche nelle ultime settimane prima del voto e a colpi di fiducia dalla maggioranza di turno. Per la durata e la qualità della prossima legislatura gli scommettitori e gli analisti sono d’accordo: sarà breve e tormentata. E c’è chi fa notare che, come risulta evidente dopo il referendum autonomista della Lombardia e del Veneto, il Rosatellum non solo non è in grado di garantire una maggioranza stabile, ma consegna tutti i collegi del Nord alla Lega o all’alleato Forza Italia con i voti degli elettori della Lega e assottiglia pericolosamente il margine di manovra del Quirinale per mettere su un governo di emergenza nazionale nel 2018. Nel centrodestra si prevedono meno parlamentari berlusconiani, più parlamentari leghisti e più parlamentari del Nord. In questa situazione il vero sconfitto del voto politico potrebbe essere alla fine il partito di mezzo, il fronte centrista, il corpaccione disponibile ad appoggiare un governo qualunque che ha tenuto i governi in piedi al Senato dal 2013 a oggi. Così come il voto potrebbe rivelarsi molto amaro per il partito egemone di questa legislatura, il Pd di Matteo Renzi, che pure ha voluto approvare la legge elettorale a ogni costo, pur di fare presto o meglio di fare prima. Prima del voto del 5 novembre.
Il 5 novembre si vota in Sicilia e per ora il trucco ha funzionato, la riduzione delle elezioni regionali in Sicilia a consultazione locale. È stata questa la linea decisa in estate dal segretario del Pd e avallata dai principali capicorrente, a partire dall’ex rivale delle primarie Andrea Orlando. «Se Renzi dovesse perdere, non chiederei un suo passo indietro», ha detto il ministro della Giustizia quando al voto siciliano mancavano ancora molte settimane. Ma ora la situazione è in parte cambiata. I sondaggi che arrivano dall’isola sono disastrosi, il Pd gioca per il terzo posto, per il podio. L’eventualità (improbabile) di retrocedere dietro il candidato della sinistra Claudio Fava sarebbe una catastrofe, ma già appare chiaro che non è mai decollato il laboratorio di alleanze a livello nazionale, con il partito di Angelino Alfano, anzi, in caso di sconfitta gli alfaniani potrebbero finire scaricati per manifesta inutilità. E i notabili più in vista nel partito e nel governo, Dario Franceschini e Andrea Orlando, potrebbero cambiare idea e spingere Renzi a cambiare strada (cambiare verso, recitava un antico slogan del rottamatore...) su due fronti. Il fronte esterno: riprendere il dialogo con i fuoriusciti, con Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, almeno, e anche con Massimo D’Alema. Il fronte interno: compilare tutti insieme le liste del Pd alle politiche e non affidarsi solo al Giglio magico. La chiameranno collegialità.
Che Renzi intenda resistere a questo destino lo dimostra l’azione di cannoneggiamento contro il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco, alla vigilia della scelta di Palazzo Chigi in concerto con il Quirinale per la successione. Per giorni Renzi e i suoi hanno bombardato il governatore e si sono proposti come gli unici difensori dei risparmiatori. Nonostante le critiche arrivate dalla quasi totalità degli editorialisti, di esponenti istituzionali e di un pezzo di Pd a lui non ostile. Il ritorno al Renzi delle origini, quello che il 12 ottobre 2013 aprendo la sua campagna per diventare segretario del Pd nel grigiore di un hangar alla fiera di Bari, diceva: «Siamo stati troppo gentili a parlare di rottamazione della classe politica. C’è un intero establishment che ha fallito». L’outsider che attaccava il mondo economico, «i commentatori che da venti anni ci danno la lezione sui giornali e fanno bene ad avere paura di noi», la Corte costituzionale («quanto è brutto che i giudici si siano messi d’accordo tra di loro per eleggere un presidente ogni tre mesi!»). Sono passati quattro anni, nel frattempo il rottamatore è diventato establishment e la mozione anti-Visco è stata suggerita da Palazzo Chigi, dalla sottosegretaria Maria Elena Boschi. L’immagine del principale partito di governo che aspira a essere insieme sistema e anti-sistema aumenta la confusione pre-elettorale, ma è un ottimo diversivo per tenere l’attenzione mediatica lontana dalla Sicilia, ma anche dalla Lombardia e dal Veneto dove il 22 ottobre si è votato per l’autonomia delle regioni dello Stato centrale. Il treno di Renzi in quelle regioni si è visto poco o nulla. Ma se non ci sei in Lombardia, Veneto e Sicilia è difficile poi aspirare a vincere le elezioni politiche nazionali, o almeno a non precipitare indietro al Movimento 5 Stelle e al centro-destra unito.
Il 5 novembre non si vota soltanto nell’isola, ma anche nel municipio X di Roma, ovvero il territorio di Ostia, sciolto per infiltrazioni mafiose durante l’inchiesta Mafia Capitale. Non ha nessun valore politico generale, ma rappresenta un test importante sulla salute elettorale della sindaca di Roma Virginia Raggi che qui nel 2016 fece saltare il banco (prese il 43 per cento al primo turno e il 76 per cento al secondo) e dei suoi competitori in un territorio immenso e più popoloso di molti capoluoghi italiani. Sicilia e Ostia hanno in comune anche il loro essere e sentirsi periferia. La Sicilia è sempre più lontana dal resto del continente, nonostante la coincidenza di due palermitani ai vertici delle istituzioni repubblicane (Sergio Mattarella e Pietro Grasso) e di un agrigentino al ministero degli Esteri (Angelino Alfano) è per i partiti un serbatoio di voti senza nessuna influenza sui processi nazionali. Ostia e il suo municipio è l’estrema periferia di Roma, lontana geograficamente dal centro dei ministeri e del potere capitolino, un pezzo di città e di Stato che vive da anni una deriva latinoamericana, come Ciudad Juarez, la città messicana di frontiera descritta nei romanzi di Don Wislow. Vanno al voto periferie sterminate e indecifrabili, nel disinteresse, nell’incuria, tra piccoli giochi di potere locali ignoti ai più che a volte incrociano più ampie strategie nazionali.
Ma nell’ottica romano-centrica del Palazzo anche la Lombardia, e ancor di più il Veneto, le regioni più ricche, europee e moderne di Italia rischiano di essere considerati periferie. Il risultato referendario del 22 ottobre, con l’impressionante affluenza in Veneto che incorona il leghista Luca Zaia come doge indiscusso della regione prima bianca e oggi verde, suona come l’ennesima rivelazione di un’Italia sconosciuta al club ristretto di spin doctor, leader e semi-leader presenti sui media e assenti sui territori, privi di antenne per captare e decifrare i segnali, le richieste di cambiamento, prima che si manifestino nel voto, quando è troppo tardi. C’è la rivolta dei ricchi e c’è il voto delle periferie, un mix di rabbia, risentimento, rassegnazione che inserisce l’Italia nella più generale vicenda europea. Il 5 novembre si vota, in Sicilia e a Ostia. È l’ultimo test, l’ultimo metrò per tornare a casa come nel film di François Truffaut, l’ultimo voto del 2017. Poi arriveranno le elezioni politiche e sarà un’altra storia.