L'ex ministro candidato alle primarie dem si concentra sulla sicurezza, 
priorità del Carroccio. E dimentica lo squilibrio economico su cui ha perso Matteo Renzi

Ora che la candidatura di Marco Minniti è diventata ufficiale, la battaglia per la leadership del Partito democratico entra nella sua fase più intensa, e politicamente interessante. Per quanto indebolito dalla sconfitta elettorale, e paralizzato dalle lotte intestine, il Pd rimane una forza politica importante, che potrebbe giocare un ruolo decisivo se, come è possibile, l’attuale maggioranza dovesse entrare in crisi prima della scadenza naturale della legislatura. Minniti non è il candidato di Renzi, come si è affrettato a precisare. Ma sembra essere comunque il candidato di buona parte degli amici di Renzi, il che rende la sua contrapposizione con Nicola Zingaretti inevitabilmente un confronto non solo sul futuro del partito, ma anche sul suo passato recente.

Non c’è dubbio che Matteo Renzi non ha portato avanti solo un’agenda politica, ma ha anche cercato di imporre uno stile di leadership, che per molti versi rompeva con la tradizione del centrosinistra italiano degli anni recenti, e forse anche di quello del passato. Non a caso chi è andato alla ricerca di precedenti storici ha creduto di trovarli in un leader della prima Repubblica: Bettino Craxi.

L’analogia non è priva di qualche fondamento. Chiunque ricordi le interviste televisive di Craxi può testimoniare quanto il suo eloquio, la sua presenza fisica, i suoi gesti, fossero nuovi, dirompenti rispetto a quelli dei suoi compagni di partito e avversari politici. Sotto questo profilo è vero che Craxi fu un innovatore sul piano della comunicazione politica, come lo è stato Renzi. L’analogia convince meno, tuttavia, se la trasferiamo dal piano del modo di comunicare a quello dei contenuti. Alla fine degli anni Settanta Craxi era un leader socialista europeo, con un ruolo riconosciuto dai suoi interlocutori socialisti e socialdemocratici di altri paesi, che aveva ingaggiato una battaglia culturale con il Pci per l’egemonia sulla sinistra. Le politiche che difese, anche quelle che oggi appaiono in retrospettiva sbagliate, non erano concepite come un modo per andare oltre il socialismo europeo, nel quale si trovava benissimo, ma semmai per modernizzare la sinistra italiana, che di questo aveva un gran bisogno.

Molto diversa sotto questo profilo è la prospettiva di Renzi. L’uomo è meno avvezzo di Craxi alla discussione sulle idee e i principi, ma, nella misura in cui esprime un punto di vista generale in politica, esso non ha nulla a che vedere con il socialismo. La sua non è stata una battaglia per l’egemonia nella sinistra, di cui probabilmente non si è mai curato, ma per il controllo del Pd, per trasformarlo in un partito centrista in grado di portare avanti un progetto di modernizzazione declinato non nei termini di una qualche concezione di giustizia sociale, ma in quelli dell’innovazione tecnologica, economica e della governance del paese. Anzi, nel modo in cui egli ha rimosso il conflitto distributivo dall’orizzonte del Partito democratico c’è l’impronta di una visione neoliberale della politica. Inevitabile che gli interlocutori, in una fase segnata dall’onda lunga della crisi economica iniziata dieci anni fa, fossero quasi esclusivamente i forti, i vincenti, coloro che si sentono al sicuro perché non hanno timore del futuro. La cosa, come è noto, non è andata bene.
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Osservare il modo in cui è stata presentata la candidatura di Minniti ci aiuta a capire quale sia stata, nella misura in cui c’è stata, la lettura della sconfitta elettorale data - con cospicuo ritardo, e senza alcuna fretta di articolarla - da Renzi e dai suoi sostenitori. Ci aiuta a farlo anche la pubblicazione di un libro, “Sicurezza è libertà” (Rizzoli) che dovrebbe presentare la visione politica del candidato leader.

La prima cosa che colpisce è la scelta del tema di fondo, quello che unifica le riflessioni dell’ex ministro dell’Interno e ne caratterizza il messaggio agli elettori: la sicurezza. Una scelta che fa capire quale sia stata la lettura della sconfitta del Pd. Non sono state politiche economiche squilibrate, che non hanno saputo sostenere per tempo quella parte del paese che non si sentiva protagonista della narrazione renziana, tutta fatta di eccellenze, campioni e vincenti. Quel ceto medio che, per la prima volta nella storia recente del paese, non ha più fiducia nella possibilità che la prossima generazione starà meglio di quella attuale, che i figli faranno, se bravi e fortunati, dei passi avanti. La paura di chi teme di scivolare indietro, e la sensazione che essa fosse ignorata, e quasi derisa, da un leader che parlava costantemente d’altro, è stata verosimilmente un fattore decisivo nella sconfitta del Pd, ma di questo non c’è quasi traccia nel messaggio di Minniti, che si concentra invece sulla paura.

La destra nazionalpopulista (e anche in questo modo di descrivere l’avversario c’è un errore di lettura, un negare la complessità degli atteggiamenti che sono entrati inizialmente nel voto per il M5S) ha vinto perché ha puntato sulla paura. A questo bisogna reagire mostrando di essere in grado di rispondere alle esigenze della sicurezza in modo migliore, più efficiente, forse più umano, di quanto abbia fatto fino a ora l’attuale maggioranza di governo.

Si manifesta in questo modo la curiosa tendenza, messa in luce da diversi studiosi, dei neoliberali a scivolare verso politiche securitarie tutte le volte che hanno incontrato problemi sul piano del consenso. Lo aveva fatto, a suo modo, Tony Blair in risposta al terrorismo, si propone di farlo Minniti, ma in risposta a cosa? L’Italia non ha un’emergenza terrorismo, per fortuna. Ha un problema serio, ma scandalosamente enfatizzato da una parte dei mezzi di comunicazione e dalla destra, di gestione del flusso di immigrati. Un fenomeno per molti versi positivo, se il paese riuscisse a dare opportunità a chi arriva. Ma per farlo si dovrebbe ribaltare la prospettiva, contestando alla radice tutto l’impianto del governo attuale.

Mettendo in primo piano la sicurezza, si segue invece l’agenda stabilita dalla spregiudicata campagna di Matteo Salvini, accettandone le priorità, e proponendosi non come un’alternativa, come un modo diverso di pensare al futuro del paese, ma soltanto come un professionista che ritiene di poter svolgere il proprio compito meglio della persona cui gli elettori lo hanno improvvidamente affidato.
Dati
Le primarie del Pd non interessano quasi a nessuno
28/11/2018

Se questa è la strada su cui si metterebbe il Pd “di ascolto” di cui parla Minniti (che però ascolta soprattutto l’eco della propaganda di Salvini) esso lascerebbe del tutto senza risposta le domande di equità, di sviluppo sostenibile, di ricucitura dei tanti strappi che dieci anni di crisi hanno causato nel tessuto del paese, che vengono da una parte dell’elettorato. Quella che non si riconosce nell’Italia omofoba, razzista e maschilista quotidianamente rappresentata da Salvini a dai suoi sostenitori. Ciò vorrebbe dire anche abbandonare, probabilmente per sempre, il sogno di innovare la sinistra che ha sempre animato gli sforzi dei riformisti italiani, per sostituirlo con qualcosa di diverso. Un neoliberalismo soft fuori tempo massimo. Che non sarebbe in grado di fare i conti con le grandi sfide che il futuro ci impone, da quella di un’Europa più solidale a quella del cambiamento climatico.

La giustizia e l’eguaglianza contano in politica, e devono essere al centro della ricostruzione della sinistra di questo paese. L’eguaglianza del rispetto innanzi tutto. Ciò vuol dire preoccuparsi non solo della corretta distribuzione dei beni sociali primari, quelli di cui ciascuno ha bisogno per partecipare su una base di parità alla vita pubblica e ai processi democratici, ma anche di quegli interventi che sono essenziali per proteggere e alimentare il rispetto di sé delle persone. Su questa strada c’è un gran lavoro da fare, e c’è un gran bisogno di qualcuno che si faccia avanti per farlo.