Viviamo l’inverno dei rancori, dei sovranismi, delle guerre tra poveri. Ma davanti c'è il sogno di una nuova Europa, in mano a una nuova generazione

europa
Il Quarticciolo, borgo popolare di Roma, dista dieci chilometri dal centro, non è stato facile arrivare nel traffico del sabato sera. Ma i presenti saranno ampiamente ricompensati: nel piccolo teatro dove si svolge una rassegna di dibattiti organizzati dall’associazione Doppio ristretto stanno per vivere un momento che non potranno dimenticare. È appena terminato il dibattito sull’avanzata dei sovranismi in Europa tra me e la collega giornalista della Rai Eva Giovannini, quando la donna in prima fila fa un piccolo cenno e chiede di parlare.

È arrivata a sorpresa, ha fatto sapere che ci teneva a esserci. Ha i capelli candidi, la fragilità non ne ha intaccato la bellezza e il rigore delle argomentazioni, dentro il corpo minuto c’è una forza antica. «Abbiamo parlato di Salvini e delle destre, ma la verità è che siamo in difficoltà a capire cosa dovrebbe fare la sinistra alle prossime elezioni», dice. «La sinistra ha una tradizione europea. Quando un tempo si parlava di popolo, si intendeva quelli che non avevano, nelle loro condizioni materiali, nei diritti. Questo resta il tema di fondo. Il problema è cosa possiamo dire noi agli elettori che andranno a votare per l’Europa. La prima domanda che ci fanno è: che cosa può cambiare l’Europa per me, nella mia vita? Io credo che chi è di sinistra deve rispondere con alcune cose semplici: un lavoro che non sia precario, i diritti delle persone e delle donne che in molti paesi sono sotto attacco».
[[ge:rep-locali:espresso:285328911]]
Tocca a Rossana Rossanda, a questa donna nata il 23 aprile 1924, la ragazza del secolo scorso che ha attraversato le tragedie del Novecento, come si intitola la sua autobiografia, ricordare le cose semplici, le bandiere da alzare nelle prossime settimane. Il lavoro e i diritti delle donne, e di tutti, il pane e le rose. In un suo libro che raccoglieva un reportage a puntate pubblicato dal “Manifesto” nell’estate 1980, una stagione simbolicamente cominciata con la strage della stazione di Bologna del 2 agosto e conclusa con la marcia dei quarantamila della Fiat a Torino il 14 ottobre, la sconfitta dei sindacati e della sinistra, la chiusura degli anni Settanta, Rossanda raccontò di un suo viaggio compiuto più di un decennio prima nella Spagna dominata dal dittatore Francisco Franco, in missione per conto del Pci. Un «viaggio inutile», «in un momento informe». Rossanda si chiedeva alla fine: cosa succede quando un paese muore? E la risposta era disarmante: non avviene nulla, nulla di quello che ci aspettiamo.

La domanda della Rossanda mi è tornata più volte in mente in questi anni, in questi ultimi mesi. Di inverno che non dà tregue. Di chiusure feroci, di arroganze esibite, di buio sul futuro. Di ritorno di un passato che credevamo sepolto per sempre: stendardi nazionalisti, slogan brutali, parole d’ordine che ci riportano indietro di secoli, come quelle che preparano l’incontro mondiale delle famiglie a Verona di fine mese, un titolo quasi gentile che nasconde il raduno del Fronte della Reazione italiano e internazionale che vuole cancellare i diritti civili conquistati negli ultimi decenni, a partire da quelli delle donne.

L’Italia è l’avamposto, il punto più avanzato dello scontro, il laboratorio in cui si sperimentano gli equilibri della nuova Europa che progettano i sovranisti e i loro potenti amici stranieri. A Verona ci sarà anche il russo Alexey Komov, annunciato come responsabile delle relazioni internazionali per la commissione famiglia del patriarcato di Mosca, amico dell’oligarca Konstantin Malofeev e presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia guidata dal salviniano Gianluca Savoini. I nostri sovranisti sono burattini manovrati da burattinai che abitano capitali estere, che costruiscono una rete di interessi strategici mascherata da una guerra sui valori. Predicano il ritorno all’indietro, difendono la sicurezza di chi possiede contro chi non ha: l’esercito dei non abbienti che arriva dall’Africa e il popolo degli impoveriti d’Europa, lasciato solo e abbandonato da chi avrebbe dovuto rappresentarlo, la sinistra.

Cosa succede quando un paese muore, se restano in piedi le istituzioni repubblicane, ma nella percezione e nei fatti la democrazia si è svuotata, è diventata materia informe? È una domanda che non dovrebbe lasciare in pace le classi dirigenti europee e le nostre coscienze.

La primavera, mai così attesa, tarda ad arrivare. E per farla nascere bisogna combattere. Come ha fatto la prima generazione di europeisti, quella eroica e visionaria uscita dal conflitto mondiale, con il sogno laico dell’Europa unita e federalista di Altiero Spinelli e il progetto di un nuovo umanesimo cristiano di Konrad Adenauer, Robert Schuman e Alcide De Gasperi. E poi la seconda generazione che ha assistito alla nascita dell’euro, quella di Helmut Kohl, Jacques Delors, Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta, che ha parlato in queste settimane con la voce di due figure. Il presidente della Bce Mario Draghi, nel discorso di Bologna del 22 febbraio, ha detto che l’Unione europea restituisce ai paesi che ne fanno parte la sovranità nazionale che oggi avrebbero altrimenti perso, nel mondo globalizzato.

Intervista
«L'Italia viene usata per indebolire l'Europa. E c'è chi ha interesse per questa debolezza»
15/3/2019
«In un mondo in cui tra le grandi potenze ogni punto di contatto è sempre più un punto di frizione, le sfide esterne all’esistenza dell’Unione europea si fanno sempre più minacciose. Per questo occorre unità, equità e soprattutto un metodo di far politica in Europa per recuperare quell’unità di visione e di azione che può tenere insieme Stati così diversi. E rispondere alla percezione che manchi di equità: tra Paesi e classi sociali. Occorre sentire, prima di tutto, poi agire e spiegare».

Romano Prodi ha lanciato l’iniziativa di appendere nelle case e negli uffici la bandiera dell’Europa il 21 marzo, il primo giorno di primavera. Nel colloquio con L’Espresso nega che l’Italia sia un laboratorio per i futuri equilibri europei: «Nel laboratorio si collabora, in questo governo invece ci si divide. L’Italia è un ventre molle, non un laboratorio. Serve a indebolire l’Europa, c’è chi ha interesse per questa debolezza». Ma avverte che le basi della democrazia si vanno erodendo: «Oggi la democrazia è di fatto esclusa in Polonia e in Ungheria ed è fortemente minacciata in Italia. C’è un indebolimento dei principi liberali e democratici, l’Italia si va orientando verso modelli diversi, in linea con quanto avviene in altre parti del mondo».

Anche noi dell’Espresso sventoliamo la bandiera dell’Europa, in vista del 21 marzo, e speriamo che siano in tanti a farlo quel giorno. Una bandiera che va riempita di idee, contenuti, progetti, non più uno stendardo astratto che chiunque può rimuovere o calpestare. E che va presa in mano da una nuova generazione.

Quella della nuova sindaca di Danzica Aleksandra Dulkiewicz, raccontata da Wlodek Goldkorn, nella città in cui ottant’anni fa partì il conflitto mondiale e la fine dell’Europa e dove è stato assassinato il predecessore Pawel Adamowicz. E dei nuovi movimenti e partiti europeisti che provano a muovere un’onda in senso opposto ai sovranisti, ne scrivono sull'Espresso Gigi Riva e Federica Bianchi, così come i ragazzi di 150 paesi hanno fatto venerdì 15 febbraio, lo sciopero globale sul cambiamento climatico per salvare il pianeta. Gruppi e formazioni di minoranza, certo, ma senza di loro non si costruisce la nuova Europa, non nasce la primavera.

Il libro sul viaggio inutile di Rossana Rossanda si concludeva con un impegno: «Ci separavamo, ma non riconsegnati a noi stessi: a un mare in subbuglio in cui si trattava di navigare. Ricominciava un lavoro, non solitario, senza più padri, senza più reti». Quella voce continua a parlare, da un quartiere periferico di Roma e si unisce ad altre. Che venga di nuovo la primavera. Ma bisogna combattere.