Politica
gennaio, 2021

L'ossessione anti-Renzi che anima il Pd. E il ritorno del fantasma della legge proporzionale

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Dietro la crisi del governo è comparsa l'ombra della battaglia finale tra l'ex rottamatore e il partito guidato da Zingaretti, con conseguenze che portano dritte al futuro: una legge elettorale che piace a tutti coloro che governano (tranne, ovviamente, a Renzi) 

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«Eppure c’è qualcosa che non mi torna». Adesso che almeno il primo tempo è integralmente consumato, sancendo la sopravvivenza del governo Conte due appena sopra la linea del galleggiamento - in attesa di una nuova Udeur e insomma dell’eventuale «rafforzamento della maggioranza» -, torna in mente lo sguardo perplesso che si è visto in questi giorni negli occhi di taluni renziani e le mezze frasi di sfogo trattenuto, come quella sussurrata lunedì da un deputato di Italia viva nel corridoio che si apre davanti alla ex tabaccheria della Camera dei deputati, a fronte del brusco isolamento attorno al gruppo, dopo lo strappo: «Qualcosa non torna» come a dire: i piani, i patti, erano un po’ diversi. Le aspettative di sicuro: le malelingue dicevano che Maria Elena Boschi avesse già pronti gli scatoloni per il ministero, solo dieci giorni fa. «È il Pd ad aver cambiato strategia?», hanno domandato a Matteo Renzi in una delle innumeri interviste prima del passaggio parlamentare. E lui, con l’aria di non voler rispondere di sì: «È chiaro che io ho avuto un coraggio che loro non hanno avuto».

Per questa via, appena sotto la crosta di un passaggio che è parso esclusivamente una sfida muscolare, tra il presidente del Consiglio e il leader di un partito che l’ha sostenuto fino al 13 gennaio, è comparsa una battaglia carsica, di portata più vasta e antica - una resa dei conti finale tra Renzi e il Pd, per dire - e un blocco di conseguenze più lunghe nel futuro, e che porta dritti alle amministrative di primavera, sfide nelle grandi città come Roma, Milano, Torino, Napoli, la cui fisionomia ora si può cominciare a disegnare; ma anche a una nuova legge elettorale proporzionale che si potrebbe fare anche subito, addirittura per andare alle urne sfruttando la finestra di giugno, appena prima del semestre bianco che inizierà ad agosto. Fantasie? Mica tanto. «Vediamo», è la risposta tutt’altro che tranchant di un ministro dem. L’ipotesi c’è. I giochi sono aperti.

È questo vascello fantasma, la proporzionale, una delle più significative (e più politiciste) conseguenze della fuoriuscita dei renziani dalla maggioranza: era l’ex Rottamatore, infatti, l’unico contrario alla proporzionale nella compagine che sostiene il governo Conte, per le ragioni che poi si diranno. Fuori lui, si tenterà di procedere rapidamente, anche grazie all’apporto delle frange più moderate di Forza Italia, in una interlocuzione che procede a tutti i livelli, come si vede dai primi sì azzurri al governo, arrivati da personaggi come la deputata Renata Polverini, ex segretaria Ugl, e Maria Rosaria Rossi, ex tesoriera di Fi e fedelissima di Berlusconi.

Insomma il patto non scritto tra Zingaretti, Di Maio e Renzi - che avevamo ribattezzato con l’acronimo Zdr - è stato rotto con un andamento che, a ripercorrere la storia a ritroso, ha elementi di tragedia classica che sono destinati a tornare nel prossimo futuro. Un passo degno di Sofocle, vale a dire: qualcosa di inevitabile, fatale, ma non per questo meno sanguinoso. Chi ha avuto modo di parlare con i principali esponenti dem in queste settimane, non ha potuto non notare infatti il ricorrere del loro pensiero su una cosa, principalmente: Matteo Renzi. Come in una specie di grande allucinazione collettiva, infatti, nel Pd in parecchi sono ossessionati dalla possibilità che a guidarli potesse essere, sia pur da fuori, proprio l’ex leader che a suo tempo tanto li aveva fatti penare. Il fatto che Renzi sia ormai ridotto a una forza da due per cento è considerato trascurabile: non rileva, come del resto accade in tutte le sindromi post traumatiche da stress.

Non lo sopporta Dario Franceschini, pur disponibile a coltivare un dialogo in funzione Quirinale, non lo sopporta Andrea Orlando, che all’ex Rottamatore sempre si è contrapposto. Non lo sopporta soprattutto il segretario, Nicola Zingaretti che infatti si è sbrigato a scansare dal tavolo l’ipotesi che le mosse del Pd fossero dettate da Renzi, non appena ne ha intravista l’ombra. Una contrarietà che nel suo caso si può capire: tutt’ora il leader dem non governa i suoi gruppi parlamentari, la cui composizione è precedente alla sua segreteria; risale infatti all’epoca renziana e vincola molti eletti a una specie di irriducibile gratitudine – come ebbe a spiegare qualche settimana fa il capogruppo dem (e filorenziano) Andrea Marcucci nel passaggio più ambiguo di una sua ambivalente intervista.

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Da questo punto di vista, la sintonia di parole e intendimenti che si è creata nel blocco degli antagonisti interni a Conte - quello appunto formato da Zingaretti, Di Maio e Renzi - ha avuto il suo apice nei primi giorni di dicembre, quando infatti la triade ha avuto la forza di decapitare la manovra del premier per scrivere il Recovery Plan con una pletora di tecnici sotto il proprio controllo. Incarnazione di quel momento, Matteo Renzi e il discorso che fece al Senato il 9 dicembre, per spiegare a Conte quanto il percorso fosse più stretto e vincolabile di come egli se l’era immaginato: quel discorso traeva la propria forza anche dal fatto di rappresentare qualcosa di più che non solo la posizione di Italia viva. Le parole d’ordine dello Zdr, in quel momento, erano del resto quasi le stesse. Dopo quel momento, però, per il patto degli anti-contiani della maggioranza comincia il declino. Lo testimoniano anche i colloqui di quella fase. Se fra i dem il ricorso ai cosiddetti responsabili era ancora visto a malincuore come un elemento «penalizzante» e di grande «fragilità» fino a metà mese, è anche vero che a Natale ha cominciato a farsi strada pure la consapevolezza che Renzi sarebbe andato fino alla rottura, senza fermarsi. «Non mi potete fermare, perché non ho niente da perdere, mi gioco il tutto per tutto sapendo di non avere quasi nulla», spiegava il leader di Italia viva nei colloqui riservati. E ancora, persino di fronte all’obiezione che «se rompi con Conte diventerai l’uomo più odiato d’italia», la risposta, lapidaria: «Lo sono già».

Ma le strade si stanno separando e i protagonisti, in fondo, lo sanno. La divaricazione tra il Pd che vorrebbe le dimissioni del premier ma, alla fine, con Conte non vuole rompere e Renzi, determinato a non fermarsi – con in mezzo un magistrale Luigi Di Maio che, secondo le descrizioni convergenti di dem e renziani avrebbe voluto rompere con Conte, ma non ha avuto la forza di farlo – diventa ampia attorno a capodanno, dopo la presentazione delle controproposte di Italia viva sul Recovery Plan e soprattutto dopo che Renzi ha dato appuntamento al 6 gennaio per la resa dei conti finale, minacciando le dimissioni delle ministre. Il dialogo continuerà fino all’ultimo momento, comunque. Fino a cinque minuti prima dell’inizio della conferenza stampa del 13 gennaio, quando Renzi annuncia il ritiro della delegazione di governo, Dario Franceschini, che resta il suo principale interlocutore nei dem, gli consiglierà di fermarsi; mentre all’opposto, nell’ultima riunione ristretta di Italia viva, con Ettore Rosato, Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto, sarà Maria Elena Boschi a spingere più forte sulle dimissioni. L’uscita dal governo, del resto, in Iv era intesa come base di partenza per una trattativa per il rientro, ma invece si è trasformata in altro appena tre ore dopo, quando il Pd ha appunto chiuso le saracinesche proclamando l’#avanticonconte.

Arriva qui la seconda parte della tragedia greca. Il Pd, nel marginalizzare e isolare Renzi, si ritrova ancora più stretto a Conte. Il paradosso, come già rilevano i sondaggi, è che una lista del presidente del Consiglio nel frattempo cresce, e pesca voti proprio nel bacino dem: ad esempio le rilevazioni di Antonio Noto della settimana scorsa valutavano una lista Conte al 13 per cento, con un Pd in discesa dal 18 al 12 per cento; mentre i Cinquestelle perdevano soltanto un punto, passando dal 14 al 13 per cento. Ecco il paradosso: Renzi e Conte si rivolgono allo stesso elettorato, il che è poi alla base della loro contrapposizione; ma il Pd, stringendosi a Conte – addirittura offrendogli sceneggiature, come si è visto fare in questi giorni a Goffredo Bettini - realizza l’abbraccio mortale con chi gli sottrae voti, per marginalizzare chi non glieli sottrae (come dimostrato in particolare dalle ultime regionali, Italia viva semmai ha un problema di sopravvivenza). Alcuni osservatori fanno notare che il problema, che sarà visibile solo con le elezioni politiche, viene aggravato dalle prossime amministrative dove, proprio grazie a questa alleanza sempre più stretta con il mondo contian-grillino, i dem raccoglieranno vittorie somiglianti a quelle del Pds del novembre 1993. All’epoca della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, insomma, quella che nella primavera del 1994 andrà a schiantarsi contro l’astro, allora nascente, di Silvio Berlusconi.

Stavolta, verosimilmente, invece che la prima elezione col maggioritario, potrebbe esserci un nuovo battesimo del proporzionale. Spuntata come d’improvviso nel discorso che il presidente del Consiglio Conte ha rivolto alle Camere per ottenere la fiducia, il ritorno del proporzionale era sul tavolo della politica da un pezzo e ci è tornato da settembre, quando il referendum ha confermato il taglio dei parlamentari voluto a tutti i costi da M5s. A questo punto, dopo l’uscita di Renzi al quale per via del suo 3 per cento conveniva poter mettere al sicuro qualche parlamentare con il meccanismo dei collegi, tutte le componenti della maggioranza sono a favore di quel meccanismo elettorale, che pesa i singoli partiti per quel che valgono, anziché premiare le coalizioni. Conviene ai Cinquestelle, che sono per ormai rivendicata natura portati a stringere alleanze dopo il voto anziché prima – secondo l’eterna formula del «con chi ci sta». Piace al Pd, un partito che in fondo ormai funziona al suo interno proprio così, nel trionfo di un sistema proporzionale tra le sue correnti: in questo modo, infatti, i dem non sono costretti a cedere ai partiti più piccoli qualche singolo collegio di rappresentanza. Piace certamente a Conte, ma anche a uno come Luigi Di Maio che, quatto quatto, a sentire alcuni rumors starebbe davvero carezzando l’idea di fare un movimento nuovo, lasciando a Casaleggio e a Crimi il carrozzone grillino, o quel che ne resta.

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