Cosa accadrà il 26 settembre al Pd?
«Un attimo. Ce la giochiamo punto su punto senza tregua per vincere. L’esito di questa elezione non è già scritto e possiamo ribaltare le cattive previsioni con il voto dei giovani, il sociale, l’ambiente, i diritti. Comunque la forza del Partito democratico è nella sua storia, nelle sue radici e nei suoi orizzonti europei. Per tale ragione vi assicuro che il Partito democratico c'è oggi, ci sarà domani e ci sarà in ogni circostanza, sia al governo sia all'opposizione. È una confortante sicurezza che abbiamo conquistato, non era scontato. Qualche anno fa, dopo il trattamento Renzi, il Pd ha rischiato di fare la fine del Partito socialista francese e del Pasok greco. Allora la stessa esistenza del Pd era in pericolo perché avevano provato a distruggerlo».
E invece cosa accadrà al segretario Enrico Letta?
«La mia fortuna è che ho sempre avuto un rapporto non isterico con le cose che faccio. Ho ricoperto incarichi che mai avrei immaginato. Come quest’ultimo. Il mio futuro lo decide il voto degli italiani, io però mi dichiaro soddisfatto di un anno e mezzo di lavoro creativo. Mi riconosco in questo partito e non perché si riconosca totalmente in me. Non è un mio feudo. Oggi siamo vicini ai progressisti che guardano con fiducia alla modernità ben saldi nella cura dei diritti sociali come succede ai nostri amici spagnoli, tedeschi, americani».
Ha capito perché Nicola Zingaretti si vergognava così tanto da dimettersi?
«La vera questione era la vita interna al Pd. Non è semplice organizzare il territorio e fondere le varie anime. Il partito ha subito scissioni, polemiche, scandali. Adesso arriva al combattimento elettorale molto compatto. Il partito è un mosaico a più tinte, non l’abito monocolore di un leader. Il Pd o accoglie - è grande - o non è: non serve. Per questo ho indicato facce che sappiano raccontare la nostra pluralità e il nostro domani come Elly Schlein».
Disse “ho un’altra vita, un altro mestiere”, poi ha accettato.
«Ero davvero scettico. Ero impegnato con la sessione di esami. Il Pd non era una prospettiva a breve. Appresi la notizia in un seminario a distanza con Maurizio Landini della Cgil. Ho riflettuto due giorni e due notti. Mi sono venuti tre pensieri. Il primo sollecitato dall’istinto: mi piace la politica, è una passione incontenibile, la faccio dal ginnasio, non riesco a sottrarmi. Il secondo e il terzo si riferiscono al senso del dovere, un altro sentimento che sfugge al controllo. Dovere verso la mia parte e verso la mia patria».
La sua parte cioè il Pd.
«Nei mesi di gennaio e di febbraio 2021 la situazione era gravissima per la politica e le istituzioni. Il Pd stava per crollare, l’ipotesi che venisse fagocitato da spinte centriste e populiste era concreto. Io provengo dal cattolicesimo democratico e non avrei potuto accettare che il mio spazio politico venisse smantellato senza il coraggio di provarci. E aggiungo che al progetto di salvezza nazionale del presidente Sergio Mattarella, che aveva schierato l'ultima risorsa a disposizione della Repubblica cioè Mario Draghi, l’adesione del Pd fu a dir poco prudente. Era mio dovere, eccoci a un argomento fondamentale, supportare lo sforzo di Mattarella per l’Italia».
Romano Prodi ha influito?
«Ci sentiamo spesso, c’è una grande sintonia. Mi consulto con Romano e l’ho fatto anche nel periodo di Parigi. L’ho invitato varie volte a tenere lezioni ai miei studenti».
Sette anni prima della chiamata al Nazareno, consegnata la campanella del governo a Matteo Renzi nella cerimonia più algida di sempre, prese un volo per Londra lasciando a terra la sua carriera politica.
«È stata una fortuna. Niente scivoli, niente soccorsi. Ricominciare davvero».
Suvvia, non era contento.
«Certo, sono partito con enorme fatica. Solitamente si diventa presidenti del Consiglio per completare un percorso. Io ero ancora giovane. Ho sfruttato l’occasione. Ho vissuto una sfida con me stesso, riuscire in un altro ambito, trasferire conoscenze e saperi, inoltrarmi in un mondo nuovo. E la fortuna, ripeto, mi ha premiato con la direzione dell’Istituto di studi politici di Sciences Po a Parigi».
Fu la scomparsa di Enrico Letta politico.
«Ho staccato, non volevo tornare. Decisi di non rimanere per non adeguarmi più ai compromessi».
È un privilegio confrontarsi con uno scomparso che ricompare.
«Non proprio. Non sono più quello di sette anni fa. Sono profondamente cambiato. E mi sento molto più giovane».
In che modo ce l’ha fatta?
«Ho analizzato i miei errori e le occasioni mancate. Ho interpretato in maniera sbagliata il mio ruolo al governo. Troppo timido, difensivo, istituzionale. Ero un minimo comun denominatore, un federatore per risolvere un problema complesso. Stare per starci è deleterio. Non capiterà mai più di rinunciare alle mie idee. Voglio colori marcati come nei quadri di Van Gogh. Al Pd ho tentato di applicare questo modello, non di imporre le mie candidature».
Però al ritorno l’hanno accolta pure quelli che l’hanno tradita nel 2014. Come si fa a fidarsi di chi ha tradito e anche con una certa ostentata soddisfazione?
«Non voltandosi più indietro. Dimenticando. Non c’è altra strada. Non serbo rancore. Non ho eseguito vendette».
La vostra classe dirigente sarà capace di stare all’opposizione dopo 10 anni su 11 passati al governo con chiunque?
«Noi siamo l’alternativa a una destra sovranista e dannosa per l’Italia. Non mi candido a perdere, ma questo vuol dire che siamo preparati a fare politica anche all’opposizione».
C’è troppa consuetudine col potere?
«È il nostro rischio: essere percepiti come il partito che sa gestire strategie e poltrone. Il Pd si è caricato grosse responsabilità per l’Italia, è stato al servizio delle istituzioni e ne ha pagato un prezzo molto alto. È senz’altro il nostro punto debole. Non scapperemo mai dalle responsabilità, ma non possiamo sacrificare ancora le nostre idee».
Quali idee, soprattutto?
«In questi anni ho conosciuto centinaia di giovani. Le nostre discussioni mi hanno obbligato a comprendere una generazione molto estremista su temi come ambiente e diritti. Assieme al lavoro che significa sconfiggere la precarietà e anche estendere l’obbligo scolastico per avere più strumenti, io in cima alla nostra lista ho ambiente e diritti. Si è fatta parecchia ironia, ma sono fermo sul mio proposito di concludere la campagna elettorale con un minibus elettrico per dimostrare quanto sia difficile spostarsi senza inquinare in Italia oggi. Mancano persino le piazzole per la ricarica del mezzo! I giovani sono i nostri interlocutori e i sondaggi già ci premiano e ci dicono che siamo il primo partito nella fascia sotto i 35 anni».
Può garantire ai suoi elettori che non ci sarà mai un’alleanza di governo con Fdi di Giorgia Meloni nella prossima legislatura?
«Sì. Questa legge elettorale e la riduzione del numero degli eletti ci conducono alla stabilità. Non assisteremo alla replica della passata legislatura perché i Cinque Stelle, che erano ondivaghi, non saranno più determinanti in Parlamento. Il Pd e Fdi sono i due perni di due campi ben distinti. Una premessa: nessuno di noi è un novizio».
Al buio tutti i gatti sono bigi.
«Tutti i protagonisti di questa campagna elettorale hanno avuto un ruolo di governo negli ultimi 15 anni, tutti noi abbiamo delle responsabilità e magari dei trascorsi che vorremmo migliorare. La stessa Meloni era ministra nel governo dello sfascio di Berlusconi. Per questo motivo invito tutti i leader a focalizzarsi sul futuro e non sul passato».
Ha proprio introiettato il concetto di rimozione del passato.
«Nella sua versione di ostacolo al futuro».
Con inconsolabile scoramento di Matteo Salvini e del Terzo Polo, la campagna elettorale è impostata su Letta contro Meloni e Pd contro Fdi.
«Ci attaccano da centro e da destra, c’è già una polarizzazione nei fatti».
Perché vuole gli occhi della tigre?
«Li ho chiesti alle comunali per trasmettere un messaggio di lotta a ciascun candidato e abbiamo vinto a valanga. I collegi blindati o dati per persi possono infiacchire. In molti collegi del maggioritario siamo testa a testa col centrodestra e anche in questo momento occorre il feroce impegno di tutti. Come ci insegna il nostro allenatore Mauro Berruto, in una partita di pallavolo conta sempre pensare alla prossima palla da giocare senza rimuginare o lasciarsi distrarre dagli eventi».
Nel maggioritario i Cinque Stelle potevano essere utili se l’avversario è davvero la destra.
«Non aveva senso forzare, rimettere le cose in ordine dopo ciò che hanno causato al governo».
Col tempo è migliorato il suo rapporto con Draghi?
«È stato un rapporto tra due persone adulte, che si stimano, ma in due ruoli diversi e con diverse missioni da compiere. La sua era quella di salvare il Paese. La mia era quella di contribuire al suo governo col Pd».
E per il trasloco al Quirinale?
«Per andare al Colle è necessario avere un legame trasversale e consolidato con il Parlamento. Compreso che Draghi non aveva l’appoggio di Cinque Stelle e Lega, la nostra opzione era soltanto il secondo mandato di Mattarella. Era di lato, non esposta, perché il presidente non voleva».
La figura di Draghi ne esce sgualcita?
«No, a sentire gli appelli a darsi da fare di queste settimane che giungono persino da Salvini».
Da esperto del settore espatrio, gli suggerisce di lasciare l’Italia?
«Le condizioni politiche e anagrafiche sono differenti, non mi permetto di dare consigli. Penso però che l’Italia avrà ancora bisogno di Draghi».
“Viè qua Enrico che te bacio”. Non voleva quel bacio, poi Carlo Calenda ha stracciato il vostro accordo. Le ha sbloccato un ricordo renziano?
«No, ho imparato ormai come si reagisce. Continuo a pensare che le parole in politica siano importanti».
In un corridoio della vostra sede, laddove in passato era effigiato unicamente Renzi, adesso ci sono le fotografie degli ex segretari. Era il solo modo per riportarlo dentro?
«Ho davvero cercato una relazione costruttiva con gli ex segretari che hanno lasciato la nostra casa e hanno fondato due partiti. Con Bersani e Speranza ha funzionato, con Renzi no».
Palazzo Chigi è ancora un’ossessione?
«Lo è stato prima per l’altro Enrico, oggi non è tra le mie priorità, non è una mia aspirazione, lo rifarei esclusivamente per senso del dovere. Non è il lavoro che amerei fare di più nella vita».
Gioiosa macchina da guerra (Achille Occhetto) o Smacchiamo il giaguaro (Pier Luigi Bersani)?
«No, no, non ci casco».
Ha già un biglietto per Parigi?
«Mi concentro sul 25 settembre».