Demolire il primo pilastro piantato da Mario Draghi è toccato a lui: Raffaele Fitto da Maglie, il ministro senza portafoglio del governo Meloni con il portafoglio più gonfio di tutti gli altri ministri. A 53 anni, dopo aver girovagato in lungo e in largo nel centrodestra cambiando una dozzina di partiti, alcuni dei quali da lui fondati e affondati, è finalmente saltato sul carro giusto. Quello, ormai affollatissimo, di Fratelli d’Italia. Ha portato in dote un bel gruzzolo di voti ed è stato ben ricompensato.
La presidente del consiglio Giorgia Meloni, con la quale aveva già militato per anni nello stesso governo di Silvio Berlusconi, gli ha consegnato le chiavi dello scrigno più prezioso, che contiene miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ministro per gli Affari europei, le Politiche di coesione e il Pnrr, pure con delega per il Sud. Sta seduto su qualche centinaio di miliardi, il rampollo di Salvatore Fitto, il presidente democristiano della Regione Puglia scomparso nel 1988 in un tragico incidente d’auto. Il che ne fa l’uomo forse più potente del governo.
Occupando anche la casella di maggior peso politico per il partito di Giorgia Meloni nella maggioranza. Perché adesso sul Pnrr e quella montagna di denari gli alleati non toccano più palla: non la tocca Matteo Salvini, né la tocca Silvio Berlusconi.
Resta l’interrogativo del perché proprio lui, su quella poltrona così fondamentale per la spesa dei fondi europei. Proprio uno che aveva già rivestito il medesimo incarico in un precedente governo di centrodestra, senza peraltro risultati indimenticabili. E che quando era stato presidente della sua Regione, per cinque anni fra il 2000 e il 2005, la Puglia era risultata la penultima al Sud per l’impegno dei fondi europei.
Davanti, di un niente, alla sola Campania. Su 5,3 miliardi di contributi per i Programmi a titolarità regionale del piano 2000-2006, ne aveva impegnati al 31 dicembre 2005 secondo la Ragioneria generale dello Stato poco più di 3,3 miliardi. Ovvero il 64 per cento, contro il 63,3 della Campania. Ma anche il 64,1 della Sicilia, il 67,7 di Calabria e Sardegna, il 79,2 del Molise e l’83,1 della Basilicata.
Le abilità politiche, evidentemente, ne sopravanzano altre. E bisogna leggerlo con attenzione il decreto legge del 24 febbraio 2023 sulle «disposizioni urgenti per l’attuazione del Pnrr», per capire come viene smontato l’apparato messo in piedi dal predecessore di Giorgia Meloni mettendo tutto nelle mani di Fitto. Primo passo: il colpo di spugna sulla segreteria tecnica, lo snodo cruciale voluto da Draghi alla Presidenza del Consiglio per la gestione del piano. Al suo posto, l’ennesima struttura di missione, alle dirette dipendenze, però, del ministero di Fitto. Secondo passo: il colpo di spugna sul Tavolo permanente con i rappresentanti degli enti territoriali. A questi si aggiunge un terzo colpo di spugna, sull’Agenzia della coesione. È un organismo creato una decina d’anni fa con la speranza di far fronte alle incapacità delle Regioni nell’uso dei fondi europei, ma che purtroppo non è mai riuscito a svolgere quella funzione. Anziché farla funzionare si è preferito abolirla.
Una scelta coerente con la decisione di centralizzare ogni competenza sulle risorse europee nel ministero di FdI. Indovinate infatti a chi passeranno i 213 dipendenti dell’Agenzia? Ovviamente a Fitto. Insieme ad altri 59, di cui 9 dirigenti, che verranno assunti per decreto con la scusa della nuova struttura di missione. Con il risultato che il suo ministero, da semplice dipartimento di palazzo Chigi, si trasformerà in un ingombrante centro di potere.
Non si disperino, tuttavia, i colleghi ministri. Ce ne sarà anche per loro. Centinaia di persone assunte a tempo determinato dai ministeri per seguire le pratiche del Pnrr otterranno l’agognata stabilizzazione. «Previo colloquio selettivo», naturalmente. Un occhio di riguardo è rivolto soprattutto al ministero della Sovranità Alimentare del cognato di Giorgia Meloni. Francesco Lollobrigida avrà a disposizione un centinaio di nuove assunzioni metà delle quali per una nuova authority. Si chiamerà «Autorità di Gestione Nazionale del Piano Strategico della Politica Agricola Comune 2023-2027», e se ne sentiva proprio il bisogno.
Se poi questi cambiamenti metteranno il turbo al Pnrr, è un interrogativo senza risposta. Da noi è la regola che il nuovo governo per prima cosa butti all’aria ciò che ha fatto il governo precedente, e non è mai stato un buon viatico. Quasi sempre è solo una perdita di tempo. E qui il tempo è davvero denaro.
Che l’Italia non ce l’avrebbe fatta a spendere tutti quei soldi europei entro il 2026, come invece avevamo promesso, era del resto prevedibile già prima di questa nuova pensata. Riusciamo con difficoltà a usare i contributi ordinari di Bruxelles, come sa bene Fitto, figuriamoci quelli straordinari. Per non parlare dei costi, che fra inflazione e speculazione sono saliti alle stelle. Ecco allora il colpo di genio: chiedere a Ursula von der Leyen di poter completare con i fondi strutturali ordinari i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (ormai famoso come Pnrr) che resteranno incompiuti dopo il 2026. Immaginiamo le reazioni. Non soltanto quelle di Bruxelles, ma anche delle Regioni che sarebbero private di capacità di spesa.
Vedremo. Colpisce però che nemmeno quando c’è in ballo un pezzo rilevante del nostro prossimo destino si rinunci a scivolare nella caricatura.
Che cosa c’entra in un decreto «urgente» sul Pnrr una norma per cambiare nome all’Agenzia Nazionale Giovani ribattezzandola «Agenzia Italiana per la Gioventù», con tanto di presidente e consiglio di amministrazione nuovo di zecca? Gioventù italiana… Non vi ricorda forse qualcosa?