Giorgia Meloni e l’uso record della fiducia. Peccato che all’opposizione la definisse «una vergogna»

Con 27 ricorsi allo strumento, il governo di destra si conferma quello che ne ha fatto più abuso, paragonato con quelli delle scorsa legislatura nel medesimo numero di giorni

È ormai una consuetudine del governo di Giorgia Meloni: ogni volta che la maggioranza si trova in difficoltà, nonostante l’ampio divario di voti a suo favore l’esecutivo pone la questioni di fiducia. Solitamente posta con il triplice obiettivo di blindare le disposizioni contenute nei testi, di ricompattare la maggioranza e di velocizzare l’iter per l’approvazione delle leggi, la scappatoia si presenta su un unico maxi articolo che comprende tutto il disegno di legge e permette di fare decadere automaticamente gli ostacoli: cioè gli emendamenti. 

Sembrano lontani i tempi in cui la Presidente del Consiglio, prima di arrivare a Palazzo Chigi, denunciava l’abuso di questo strumento da parte dell’esecutivo attraverso interventi incendiari in Parlamento ma anche sui social. Per Meloni nel 2006 porre la fiducia era una «scelta oligarchica». Un «errore drammatico» nel 2015. Una «vergogna» nel 2017. «Una mortificazione del Parlamento, una deriva democratica» nel 2021. «La democrazia è un’altra cosa», si sfogava su Twitter. 

 

Oggi qualcosa deve essere cambiato. Fratelli d’Italia al governo ne ha incassate finora 27 in poco più di nove mesi. L’ultima è stata posta il 3 agosto dal ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani al Senato, il Parlamento in chiusura per l’estate, la gente dall'ombrellone e dallo chalet ci fa caso di meno. È il settimo voto – il quarto solo tra giugno e luglio - chiesto dal governo a Palazzo Madama. Alla Camera siamo invece a quota 20 in soli dieci mesi: otto solo tra il 5 giugno e il 1º agosto 2023.

Il Conte I ha chiesto la fiducia nove volte (15 in 15 mesi): una al mese. Diversa la situazione per il governo Conte II che nelle fasi più dure della pandemia è salito a 39 in 17 mesi di governo, ben 20 nei primi 9 mesi.

L’esecutivo Draghi, in meno di due anni di governo, può contare 53 questioni di fiducia, di cui 19 in 9 mesi, comunque sotto alla soglia record raggiunta dal governo Meloni. Come scrive OpenPolis, inoltre, la marginalità delle Camere viene evidenziata dall’abuso di decreti legge: «quando il governo deve legiferare lo fa, nella stragrande maggioranza dei casi, attraverso decreti legge (21 conversioni su 26 leggi approvate). Da questa rapidissima disamina possiamo concludere che è chiaramente il governo a detenere saldamente nelle proprie mani anche il potere legislativo».

Anche su questo punto, Meloni dai banchi dell’opposizione era stata molto critica. Era il 15 maggio 2020 e la leader di Fratelli d’Italia twittava: «Cosa c’è di così urgente da scavalcare il Parlamento nel bonus monopattini, nella lievitazione delle poltrone delle società pubbliche e nella sanatoria dei clandestini? Abbiamo ancora una Costituzione in Italia?»

 

Proprio ieri il Consiglio dei Ministri ha approvato due “decreti Omnibus” che contengono di tutto: dalla deroga al tetto sugli stipendi per la società che costruirà il ponte sullo Stretto di Messina all'aumento del 20% delle licenze dei taxi, dall'iniziativa contro il caro voli ai provvedimenti sulla giustizia, dagli investimenti per i piccoli comuni alla lotta al granchio blu. Fino alla discussa imposta straordinaria del 40% sugli extraprofitti delle banche applicata ai bilanci 2022 e 2023. «Inaccettabile», avrebbe commentato in un altro tempo la leader di Fratelli d’Italia. Ma adesso che è al governo la fiducia somiglia a un segno di sfiducia verso la maggioranza: forse troppo pericoloso rischiare franchi tiratori nei probabili voti segreti, meglio cancellare d’un colpo il dibattito. Più che una richiesta di fiducia, un vero atto di fede. 

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