Il cerchio tragico
Francesco Lollobrigida e gli altri: ecco i ministri "zavorra" di cui Giorgia Meloni vuole liberarsi
La leader di Fratelli d'Italia punta a battere il record di durata del suo governo ma, per farlo, deve scaricare i nomi più imbarazzanti. Approfittando della corsa alle poltrone europee dopo il voto di giugno. Ecco chi sono i più a rischio
Durante la conferenza stampa d’inizio anno Giorgia Meloni l’ha detto un’altra volta: niente rimpasti nel suo governo. Per una questione di principio, cioè di immagine. Vorrebbe fare ancora meglio di Silvio Berlusconi: governare cinque anni senza nemmeno un bis. E anche per una questione diciamo pratica: si trova tanto bene coi suoi ministri, ha spiegato la premier nel tipico crescendo iperbolico, da non voler modificare la squadra nemmeno di un puntolino. Il ritratto della sincerità: sembrava la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati quando giura che il suo premierato non finisce per alterare anche il potere del presidente della Repubblica.
Le premesse di Meloni infatti, come l’elastico di una fionda, si prestano perfettamente a significare il contrario di quel che dicono: la premier presiede in realtà un governo composto interamente di rimpastabili, dall’ologramma Gilberto Pichetto Fratin all’ineffabile Paolo Zangrillo, dalla carneade Alessandra Locatelli al mitologico Giuseppe Valditara. Per non parlare del Guardasigilli Carlo Nordio, il cui ruolo alla prova dei fatti e dell’unico ddl a sua firma giunto solo adesso all’esame del Parlamento si potrebbe dire esaurito con lo sventolamento del nome, il giorno del giuramento. Insomma se il suo fosse un premierato forte, Meloni li avrebbe già revocati tutti questi ministri, ma il premierato debole e i chiari di luna della sua classe dirigente non lo consentono, deve tenerli per forza. Ergo, le elezioni europee saranno un’occasione come nessun’altra mai per cambiare, se non tutto almeno qualcosa, anche se poi tragicamente non si tratterà del ventre molle, come sempre il più difficile a spostarsi. Non ci sarà bisogno di chiamarlo rimpasto: quello è quasi sempre un segno di morbidezza verso gli alleati, qui invece Meloni si appresta alla prova di forza. Sarà lei a decidere, persino semmai con interim, come fece a suo tempo Berlusconi. Sarà comunque giugno il momento dell’ora o mai più: la corsa europea come premessa per giustificare la sostituzione, il liberarsi di qualche ministro-zavorra. E certe manovre in questo senso sono cominciate da un pezzo.
Su tutte, magnifica è quella che riguarda il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. L’immortale autore di alcuni tra i momenti più vibranti di questi quattordici mesi di governo dei Fratelli d’Italia e dei loro affini, secondo forse solo al sottosegretario Andrea Delmastro, il ministro-cognato ha iniziato il 2023 facendo risuonare la necessità dell’italica procreazione contro il pericolo della «sostituzione etnica», ha proseguito vantando il «mangiar sano» dei poveri (un argomento realmente in voga nell’anno 1940, pieno regime mussoliniano, come possono testimoniare fra gli altri i collezionisti della “Domenica del Corriere”) e, giusto per andare per sommi capi, ha concluso l’anno con la fermata straordinaria del Frecciarossa in ritardo alla stazione di Ciampino (obiettivo: andare e tornare da Caivano in tempo per l’ospitata ad “Avanti Popolo”).
Ecco perché il ministro della Sovranità alimentare è adesso tra i primi della lista per una bella candidatura alle Europee. Corsa alla quale Lollobrigida appare però riluttante. Quando a novembre aprì un canale Telegram di aggiornamento delle propria attività, come ha raccontato a suo tempo il “Fatto”, qualcuno gli chiese: «Lo fai perché ti vuoi candidare?». «No», rispose lui. Un diniego rotondo, e inutile.
Da allora infatti la questione non è cambiata, perché Meloni pensa ancora alla possibilità di candidarlo, così da allontanarlo dalle cose romane, di politica ma non solo. Lo pensava in estate quando, come dice lei stessa, «ho preferito mettere Arianna nel mio partito», cioè far salire sua sorella, compagna di Lollobrigida, all’interno di FdI nominandola capa della segreteria politica e responsabile del tesseramento (il ruolo chiave che in An era ricoperto da Donato Lamorte). Ha continuato a pensarlo, a sprezzo di ogni Ciampino o forse proprio per quello, in tempo di Finanziaria. Laddove, nonostante il generale contenimento dei costi richiesto, Lollobrigida ha fra l’altro ottenuto 2 milioni di euro in più per gli «uffici di diretta collaborazione», vale a dire il suo Gabinetto al ministero, l’ufficio legislativo, la segreteria, l’ufficio stampa, il suo staff. Un sacco di soldi: a luglio, per fare un esempio, il ministro Guido Crosetto aveva ottenuto di incrementare i suoi uffici alla Difesa di 20 persone, con un aumento di spesa previsto di 533 mila euro all’anno. Un quarto dei soldi destinati adesso a Lollobrigida, il quale quindi in proporzione potrebbe assumere 60-80 persone. A cosa serviranno tutti questi individui? Ad esempio a gestire i soldi in più che sono stati dirottati sull’Agricoltura dal Pnrr riformato: tre miliardi di euro di fondi che secondo le intenzioni dovrebbero andare assegnati senza nuove gare, scorrendo le graduatorie di procedure già aperte, in modo da fare in fretta. Per il Pnrr e per il passaggio a nuova epoca. In un ministero che sta vivendo una crescita complessiva di risorse e di centralità. Una ascesa che apparirà coerente nel momento in cui – e qui sta l’altro tassello del progetto meloniano – si aprirà la trattativa sulla prossima commissione. E l’Italia, visto il ruolo imprescindibile ma non di particolare spicco che ci si attende, specie ad esempio nel caso di una nuova presidenza von der Leyen, potrebbe aspirare a una poltrona di seconda fascia ma identitaria per FdI, come appunto l’agricoltura. Posto perfetto dove spedire Lollo, riluttante ma sempre allineato alle richieste, a maggior ragione dopo la defenestrazione di Andrea Giambruno, spartiacque di tante cose.
C’è che alla premier, come racconta più di un ex compagno di partito, piace avere persone con cui parlare prima di decidere, ma non piace il contraddittorio e figurarsi le critiche, tanto meno se fatte davanti a un pubblico. Questo elemento, acuito dacché siede a Palazzo Chigi, può da solo spiegare la divaricazione nella fortuna presso la premier tra taluni che pure non si sono certo distinti per scelte felici, ma restano comunque in palmo di mano (come Giovanbattista Fazzolari, colui che ha fornito il tragicamente sbagliato “fax” di Luigi Di Maio sul Mes da sventolare in Aula) e altri che si trovano condannati non tanto da scelte parimenti infelici, quanto dalla loro tendenza a fare di testa propria, criticare, rilasciare interviste pavoneggianti.
È il caso di Adolfo Urso, anche lui non per niente in lizza per una corsa in Europa: dal caso dei tabelloni con il prezzo della benzina al carrello tricolore già ormai cancellato dalla memoria (e di certo dai provvedimenti del governo), dalla geniale trovata del contenimento dei rialzi dei biglietti aerei in estate fino al prossimo prevedibile esito del piano incentivi per l’acquisto di nuove autovetture appena varato, il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha accumulato una tale quantità di successi a ripetizione che Giorgia Meloni non sa più come complimentarsene. Quasi risulta trascurabile l’essere stato Urso, a suo tempo, un finiano: difetto incancellabile agli occhi della sorella d’Italia, ma ormai sepolto dalla valanga delle azioni successive. Tanto da premiarlo, assieme a Lollo, con una candidatura al Nord, stile Giorgia e i tre moschettieri. E chi sarebbe il terzo?
Quatto quatto come sempre, con l’aria di uno che passa di lì per caso, al Sud potrebbe esserci Raffaele Fitto. Che a differenza degli altri due l’Europa la considera un desiderio. Portata a casa la revisione del Pnrr fino a veleggiare verso la quarta rata, il ministro per gli Affari europei si ritrova più o meno nella stessa posizione in cui si trovava Mario Draghi al termine del primo anno di governo, quando si definì un «nonno al servizio delle istituzioni» e chiarì di aver «creato le condizioni» per utilizzare efficacemente i finanziamenti del Pnrr: Super Mario era disponibile all’ascesa al Quirinale, Fitto è disponibile al ritorno in Europa, dove ha già lavorato proficuamente per quasi dieci anni. Magari per il posto da commissario italiano.
Un incarico che nel 2019 sfiorò un altro ministro di questo governo, Giancarlo Giorgetti, pronto a fare le valigie in direzione Bruxelles salvo poi vedersi azzoppare l’ambizione dal Papeete salviniano con seguito di mojito nell’agosto che mise fine all’esperienza di governo giallo-verde. Ma quell’orizzonte è vivido come non mai negli occhi del ministro dell’Economia, sempre più stretto dal sovranismo del suo governo – in imbarazzo per posizioni come il no al Mes, come si è visto – e da un partito il cui leader è quello che è. Anche per lui, come per Fitto, l’Europa sarebbe un miraggio. Forse inagguantabile anche stavolta, però.