Politica e cultura

Tutte le stranezze del bando per la direzione del Teatro di Roma

di Francesca De Sanctis   8 febbraio 2024

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La polemica sul blitz che ha imposto Luca De Fusco come nuovo direttore generale è sfociata nello sdoppiamento della poltrona. Ma non è l'unica "particolarità" del bando

C’è un posto per tutti al Teatro di Roma, che modifica lo Statuto della Fondazione e sdoppia la poltrona di direttore generale. Luca De Fusco, nominato con un blitz di tre componenti del cda scelti da Regione Lazio e ministero della Cultura senza il voto del Comune di Roma, sarà direttore artistico. Attenzione, però: verrà affiancato da un manager di area dem, indicato dal sindaco Roberto Gualtieri. Per fortuna Onofrio Cutaia, con intelligenza ed eleganza, ha rifiutato, così come Paola Macchi, altra ipotesi che aveva iniziato a circolare. Insomma, un gran bel pasticcio. È evidente che in questa storia l’interesse per il teatro e per i suoi lavoratori c’entra ben poco. Anche perché il nome del regista De Fusco, fortemente sponsorizzato dal meloniano Federico Mollicone (presidente della commissione Cultura alla Camera), circolava da tempo. Possibile che in pole position sia rimasta sempre la stessa persona, anche dopo l’avviso pubblico? O il bando risponde a logiche di spoils system di una politica protesa sulle istituzioni culturali?

 

Sono tante, infatti, le stranezze contenute nel bando, al quale hanno partecipato 42 candidati, fra i quali è stata individuata – in una riunione del cda di appena due ore e mezza – una terna di finalisti composta da Marco Giorgetti, Cutaia e De Fusco. Tra i requisiti necessari, ad esempio, «un’adeguata conoscenza della lingua italiana e di almeno un’altra lingua dell’Unione europea», anche se in genere si richiede l’inglese. Forse qualcuno dei favoriti non lo parla? E poi «laurea in materie giuridiche, economiche o umanistiche nell’ambito del teatro e delle discipline dello spettacolo ovvero la direzione per almeno cinque anni di realtà teatrali di rilevanza nazionale», richiesta forse inserita per dare la possibilità di candidarsi anche a chi non ha una laurea. E ancora, siamo certi che tutti e tre i finalisti «possano dimostrare di conoscere il sistema culturale di Roma e del Lazio per poterlo sostenere e implementare»? Domande la cui risposta si può, del resto, trovare in Rete nei curriculum dei candidati.

 

Non è finita. Dei 42 candidati, solo dieci sono donne, metà manager e metà artiste. Nessuna, però, è entrata nella terna finale. Come mai? Natalia Di Iorio, consigliera designata dal Comune per la sua esperienza nel campo teatrale, si è dissociata dalla «decisione vergognosa». Ma una prima discriminazione era contenuta già nell’avviso. A chi si candidava, infatti, veniva richiesta una «comprovata esperienza nell’organizzazione e direzione manageriale e/o artistica maturata da almeno cinque anni nel settore dello spettacolo dal vivo» e poi era chiesto di «saper elaborare un progetto artistico e gestionale di un Teatro nazionale». Non si impediva alle donne di partecipare, ma senza aver diretto un Teatro nazionale era impossibile vincere. E allora? «È un circolo vizioso», dice la regista Lisa Ferlazzo Natoli che reputa gravissimo il modo in cui è stata gestita la questione del Teatro di Roma, sia a destra sia a sinistra. Lei era una delle candidate: «Per le donne non c’è accesso». E infatti sono pochissime quelle che dirigono i teatri: nessuna nei sette nazionali (più il Piccolo di Milano che è Teatro d’Europa) e solo quattro nei 18 Teatri di rilevante interesse nazionale (Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano, Paola Donati alla Fondazione Teatro Due di Parma, Velia Papaper Marche Teatro e Pamela Villoresi al Biondo di Palermo). I numeri parlano chiaro: la strada per le donne è ancora in salita.