Integrazione

Le donne rom sono discriminate due volte

di Marica Fantauzzi   12 giugno 2024

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Una segregazione fatta di pregiudizi e violenza. Che In Italia viene affrontata «“chiudendo dentro” persone che nella società più ampia rimangono spesso “chiuse fuori”, con l’effetto di cristallizzare la loro situazione. Invece di rimuovere gli ostacoli per l'inclusione»

Quando Elisa (nome di fantasia, come altri nell’articolo) è arrivata al Policlinico Umberto I di Roma era al sesto mese di gravidanza e le manette, strette ai polsi, le facevano pulsare le dita. La madre le aveva prospettato la possibilità dell’arresto in flagranza in caso di scippo, ma lei aveva evitato di pensarci. Poche settimane prima, un’altra ragazza di origini rom, nata e cresciuta in un campo della Capitale, aveva passato alcuni giorni nello stesso reparto dello stesso ospedale. Era stata accompagnata lì da alcuni poliziotti e ricoverata d’urgenza, dopo essere stata malmenata fuori da un vagone della metropolitana da alcuni uomini del suo campo. Aveva deciso di denunciarli.

 

La notizia era girata molto e all’interno della Maternità del Policlinico c’erano, in quei giorni, più giornalisti che dottori. «I miei colleghi sono venuti ieri, vogliamo anche noi la storia della ragazza rom picchiata. Ha partorito d’urgenza? Ha denunciato gli aggressori? Qual è il legame fra le botte e il parto cesareo?». A rispondere a questa raffica di domande c’era Giulia, 26 anni, specializzanda in Ginecologia e Ostetricia. Riconosceva l’unicità del caso e della denuncia, ma al contempo pensava che il suo dovere fosse di proteggere la paziente, anche da eventuali strumentalizzazioni. Ripensando a quei momenti concitati, Giulia ricorda tutte le pazienti che le è capitato di ricevere. Molte vengono dai campi della Capitale, alcune sono piantonate dai poliziotti perché accusate di furto, altre arrivano a travaglio cominciato senza essere state seguite durante la gravidanza. In caso di fermo, infatti, se la donna comunica di essere incinta, dev’essere prima condotta in ospedale e poi in Questura.

 

«Credo che parte di quella foga nel volere raccontare questa storia dolorosa derivi da due fattori principali. Il primo risiede nello scandalo che provoca la violenza nei confronti di una donna incinta e, quindi, in un profondo senso di ingiustizia per ciò che ha subìto. Il secondo, più sottile, risiede in un certo compiacimento nell’aver identificato quella brutalità all’interno di una comunità che da sempre è oggetto di discriminazione», prosegue Giulia.

 

La popolazione romaní in Italia è storicamente oggetto di dibattito pubblico, soprattutto in riferimento ai luoghi in cui una sua parte vive o è costretta a vivere. Infatti, come evidenziato dal rapporto dell’Associazione 21 Luglio, si stima che un cittadino rom/sinto su 13 viva in un insediamento mono-etnico, il cosiddetto campo rom. Parliamo quindi di una minoranza, rispetto ai circa 180 mila cittadini rom residenti in Italia che vivono all’interno di abitazioni convenzionali. Anche se molti campi in Italia sono stati superati – il più delle volte senza avere prospettato alternative abitative – se ne contano ancora 119, costruiti dai Comuni su tutto il territorio nazionale. Il problema della segregazione abitativa etnicamente orientata è un tema enorme che riguarda soprattutto alcune città e province, come Roma e Napoli. Una segregazione istituzionalizzata, a partire dagli anni ’90, prima tramite normative comunali e regionali e poi a livello nazionale. Questa è la ragione per cui, nel 2000, l’European Roma Rights Centre definì l’Italia «il Paese dei campi».

 

Elisa vive nel campo di Candoni, vicino alla Magliana, e quando qualcuno va a trovarla deve presentare un’autorizzazione da mostrare alla polizia locale. Nei sei campi istituzionali presenti a Roma, ogni entrata è controllata da una pattuglia e l’ingresso ai giornalisti è ostacolato. E alla visita ginecologica molte ragazze rom si fanno accompagnare dalle madri: «Si affidano quasi totalmente a questa figura genitoriale, cui riconoscono un’autorità simile a quella che noi, solitamente, riconosciamo ai dottori», dice Giulia. Il rapporto con i compagni non sa descriverlo, li vede poco in reparto, né le ragazze sembrano interessate a parlarne con il medico. Giulia è consapevole del potere pervasivo di alcuni stereotipi, quando ci si relaziona con ragazze di origine rom, anche tra gli stessi operatori sanitari.

 

Per i pochi, preziosi studi sulla condizione delle donne rom in Italia, nella nostra società si registra una tendenza a considerarle, da un lato, esclusivamente come vittime di un sistema culturale di violenza patriarcale e, dall’altro, come cattive madri, socialmente pericolose. Come ha sottolineato la studiosa Claudia Mantovan in uno suo recente lavoro, nel caso delle donne rom si finisce per valutare l’eventuale devianza solo in termini culturali e raramente in termini sociali. «Le problematiche di marginalità sociale, oppressione di genere e discriminazione razziale che interessano le donne rom e sinte - scrive Mantovan - vengono affrontate, invece che con interventi volti alla rimozione degli ostacoli a una piena inclusione, con interventi di tipo penale, “chiudendo dentro” persone che anche nella società più ampia rimangono spesso “chiuse fuori”, con l’effetto di cristallizzare la loro situazione di esclusione».

 

Giulia spera che la denuncia della sua paziente sia l’occasione per gettare luce su un fenomeno ignorato, affinché tutte coloro che subiscono violenza, anche se in condizioni di forte deprivazione sociale ed economica, possano chiedere aiuto. Elisa, dal canto suo, partorirà a breve e non si sente una vittima, piuttosto una sopravvissuta a un sistema che, da quando è nata, l’ha segregata in un posto pensato contro di lei. Sa che le sue scelte sono condizionate da una serie di fattori, il primo è non avere abbastanza cibo in tavola. bell hooks, che si firmava e voleva essere ricordata in minuscolo, era una scrittrice e attivista statunitense; nel suo “Elogio del margine” dice qualcosa che, con altre parole, prova a dire Elisa, ripensando alla sua vita nel campo: «Non è un caso che questo focolare domestico, per quanto fragile ed effimero possa essere, quattro pareti tirate su in fretta e in furia, un mucchietto di terra dove riposare, sia sempre esposto a violazioni e distruzioni. Perché, quando non si ha più lo spazio per costruirsi una casa, è impossibile costruire una vera comunità di resistenza».