Il grande direttore d'orchestra si racconta. La gioventù, lo studio, i grandi successi, la passione per la musica e l'impegno civile

Si è spento, all'età di ottant'anni, il grande direttore d'orchestra. Vi riproponiamo questa intervista con il nostro giornale che si svolse nel 'rifugio' del Maestro, la sua casa sulla costa sarda vicino ad Alghero
(20 gennaio 2014)


L'idea di ritornare alla Scala solo a fronte dell'impegno di piantare 90 mila piante nel centro di Milano sarebbe piaciuta molto ad Andrei Tarkovskij, amico e ispiratore di Claudio Abbado, il cui ultimo film, "Sacrificio", si concludeva con le note della "Passione secondo Matteo" di Bach e la scena di Ometto, il piccolo protagonista, intento a innaffiare con un secchiello un albero secco su un'arida isoletta del mar Baltico.

«Bellissima inquadratura. Con Andrei ci fu subito un'intesa spirituale. Indimenticabile il "Boris Godunov" che allestimmo al Covent Garden. Fu la sua unica regia d'opera. In fondo anch'io mi sento un giardiniere che si diletta a fare un po' di musica», sorride Claudio Abbado, stimolato da quel ricordo. Ci accoglie nel suo amato rifugio vicino ad Alghero, nel tratto di costa fra le Bombarde e la Torre del Lazzaretto. La sua è una casa semplice e bassa, aperta al sole e al mare, sommersa da un intrico di bouganvillee che presto fioriranno. Ed è adagiata su un giardino rigoglioso, nove ettari di macchia mediterranea impreziosita da albicocchi, palme nane, banani, siepi di ibisco e da quattro spiaggette di sabbia translucida. Nella stanza di lavoro, affacciata sul mare, un'icona ortodossa è come incoronata da riproduzioni di Klimt e Schiele. Sulla scrivania uno spartito del "Requiem" di Mozart, su un comodino la copia sgualcita de "La mite" di Dostoevskij. Stando ai giornali Abbado avrebbe affermato che «la musica e la natura possono salvare il mondo». «Mi sembra un po' eccessivo», commenta con un sorriso indulgente, «semplicemente, su alcuni temi, come ad esempio quelli legati alla salvaguardia dell'ambiente, intendo non tacere e far vedere come si possano migliorare le cose».

Nei suoi famosi cicli di concerti a tema alla Philharmonie di Berlino, il direttore milanese spesso affrontò problematiche di vasto respiro filosofico e naturalistico, basterebbe pensare a quello dedicato a Hölderlin. Iperione, creatura letteraria del poeta tedesco, ritrova se stesso perdendosi nel tutto e attingendo all'infinito nella natura. «L'idea era quella di legare questi interventi culturali non soltanto alla musica, ma al teatro, alle esposizioni. Si organizzavano conferenze e letture sui vari temi, a cui partecipavano importanti personaggi della cultura, come il mio caro amico Bruno Ganz. Berlino era una città ideale per questo genere di iniziative», ricorda Abbado. Berlino città verde per antonomasia. Riuscirà Abbado a trasformare Milano in qualcosa di simile? «Impossibile. Berlino fu completamente distrutta dai bombardamenti e ha avuto la fortuna di essere ricostruita basandosi su dei viali enormi, con i canali, valorizzando i fiumi e i laghi. Il mio piccolo intervento a Milano è stato progettato per dire che, nonostante nella sua periferia si stia lavorando nella giusta direzione, nel centro non si può andare avanti così: in alcuni giorni l'aria è irrespirabile. Inizialmente si potrebbero sistemare dei grandi contenitori, con pioppi cipressini e magnolie che ben si adattano all'ambiente (alcune specie, come la magnolia grandiflora, la stellata e la soulangeana, sono già presenti a Milano in diverse decine di esemplari). Sarebbe già un'inversione di tendenza, in attesa della realizzazione di vere aiuole. La risposta delle autorità è stata positiva, sia da parte del sindaco, Letizia Moratti, che dal presidente della Provincia, Filippo Penati. Persone che mi sembrano consapevoli del fatto che non ho chiesto la luna. Sanno benissimo che questa mia proposta ha per scopo il bene dei cittadini».

Abbado pare sostenere, un po' come Schopenhauer, che la Natura e la Musica sono l'espressione diretta dell'essere. «Anche la musica, nella sua essenza, parla con un linguaggio universale che non ha bisogno di essere tradotto e può essere compreso da tutti». E la musica, come la natura, può contribuire a migliorare l'umanità, come ha insegnato Antonio Abreu con il suo metodo di educazione creato in Venezuela. «Un caso unico. Adesso abbiamo invitato Abreu a Fiesole, sede di un'importante scuola musicale, per mettere a punto un nuovo progetto. Abreu ha insegnato la musica a più di 300 mila ragazzi che vivevano nei barrios venezuelani, salvandoli dalla criminalità, dalla prostituzione e dalla droga, dando a tutti gli strumenti e le possibilità per studiare e suonare. Così può accadere che uno vada a Puerto La Cruz in Venezuela, un posto quasi sconosciuto, e all'aeroporto trovi tre orchestre di giovani che lo accolgono». Singolare: in qualche misura la cultura illuministica di Abbado, Pollini e Nono rivive in quelle terre lontane.

Ma non si potrebbe comprendere il fenomeno Abbado senza accennare alla sua vicenda biografica. È vero che suo padre, Michelangelo, piemontese di antiche origini arabe, violinista vicedirettore del Conservatorio Verdi di Milano, aveva il culto dello studio? «Le dico la verità. Quando ero ragazzo, com'è logico avrei preferito giocare a calcio con mio fratello Gabriele e il mio amico d'infanzia Guido Crepax, piuttosto che passare le ore chino sui libri. Ma il suo insegnamento in seguito mi fu fondamentale per il metodo e la disciplina di lavoro». E la mamma, Maria Carmela Savagnone? «Lei ha contribuito soprattutto alla fantasia e alla libertà d'espressione. Ha sempre creduto che potessi diventare musicista, più di mio padre. Ma mi ha anche trasmesso la passione per la letteratura. Lei scriveva libri per l'infanzia. Subito dopo la guerra non c'era lavoro in Italia e allora le suggerimmo: perché non pubblichi tutte le tue novelle siciliane o quelle persiane di Firdusi che il nonno aveva tradotto per primo? Lei lo fece ed ebbe un gran successo». Da ragazzino fece pure un concertino in casa Toscanini. «Erano gli anni in cui il Maestro era tornato in Italia dagli Stati Uniti. Suonai un concerto di Bach al pianoforte. Lui fu molto gentile e mi incoraggiò nel proseguire la mia attività musicale». Toscanini sul podio era molto duro con gli orchestrali. Abbado con le mani, con lo sguardo, a ogni battuta, pare invitare con estremo garbo i suoi strumentisti a suonare, quasi sussurrandogli: ti seguo, condivido la tua idea, puoi contare su di me. «Ognuno ha la sua personalità. Cerco sempre di far musica insieme agli altri, come si fa con la musica da camera». Una volta, da ragazzo, uscendo dal conservatorio completamente innamorato delle nuove composizioni che aveva studiato, scrisse su un muro "Viva Bartok". Ma erano tempi inadatti a simili entusiasmi. «Qualcuno della Gestapo, con scarse conoscenze musicali, andò in portineria a chiedere informazioni sull'autore di quelle scritte. Sospettava che Bartok fosse un partigiano. Salì in casa mia e io gli spiegai la questione, facendogli vedere a riprova gli spartiti».

Per Abbado siamo tutti cittadini di questo mondo. I vari "ismi" come particolarismo, provincialismo, campanilismo e sciovinismo lo disturbano. Anche perché, in fondo al cuore, pensa che siamo tutti emigranti. E a questo ha contribuito pure la personale scoperta dell'origine del suo cognome. «Un giorno vidi il nome di Al Muhtamed Abbad scolpito su una colonna bianca, stupenda, nel meraviglioso giardino d'Alcazar a Siviglia, a ricordare un principe arabo vissuto nell'Undicesimo secolo. Ne fui veramente impressionato. Sessant'anni fa, in tour con l'orchestra da camera di mio padre, ebbi subito la sensazione della familiarità con quel luogo. Una sera, successiva al concerto, ci accompagnarono in questo giardino e la guida ci disse che ci avrebbe portato a visitare il vicino ghetto. Mentre gli altri erano intenti a chiacchierare, io da solo mi avviai e arrivai a un cancello. La guida sorpresa si avvicinò e mi disse: ma come fa lei a sapere che questo è proprio il cancello che porta al ghetto? Avevo "sentito" che quella era la strada giusta. Conoscevo quei posti, li avevo già vissuti».

Dal 1968 al 1986 come direttore musicale fece divenire la Scala uno dei teatri più innovatori e prestigiosi del mondo. Basta scorrere i nomi che attraversarono il suo destino: Paolo Grassi, i cicli dedicati a Mahler, Berg, Schönberg, Stravinskij, le prime mondiali di Stockhausen, Nono, registi come Strehler, De Lullo, Ponnelle, Ljubimov, Vitez, i concerti in fabbrica per i lavoratori e gli studenti. Tempi stimolanti. Ben altro dialogo fra intellettuali, studenti e lavoratori rispetto a oggi. «Io credo che ogni momento, ogni fase storica, abbia bisogno di una certa presa di posizione. In quegli anni, anche con Pollini e Nono, volevamo far conoscere la Scala a un pubblico diverso. Fino ad allora era stata esclusivo dominio di una certa élite e noi volevamo aprirla il più possibile a tutti». In alcuni ambienti queste scelte vennero assai criticate. Una certa stampa conservatrice definì i tre insigni musicisti il Nap, parafrasando i Nuclei armati proletari (Nono-Abbado-Pollini). E dire che Abbado non ha mai avuto alcuna tessera partitica. «Ho sempre semplicemente lottato per le cause e le idee in cui ho creduto. Quando leggo sui giornali delle frasi tipo "la cultura non rende", rimango assai perplesso: la cultura è uno degli aspetti più importanti della vita e deve essere messa in primo piano. Ma in genere certe dichiarazioni non vanno prese per quello che sono, perché si squalificano da sole. Quello che conta sono i fatti».

L'impegno civile è una costante della sua attività. Basterebbe pensare al concerto napoletano di qualche settimana fa dedicato a Roberto Saviano. «Penso che uno scrittore che ha il coraggio di dire, scrivere, tutte quelle importanti verità in un libro che ha avuto così tanto successo in tutto il mondo, debba essere ammirato. Saviano ha parlato di alcune realtà scomode, un po' come faceva Sciascia, ma con in più il coraggio di "fare i nomi e i cognomi". Ho avuto il piacere di conoscerlo: ha tutta la mia stima».

Dopo la Scala, Londra e Vienna, dove lasciò indelebili segni di rinnovamento, per Abbado arrivarono i Berliner Philharmoniker. Nel 1989 fu il primo direttore non austrotedesco a essere eletto dagli orchestrali. In qualche misura è probabile che alla scelta contribuì l'enorme stima che Herbert von Karajan aveva di lui. Ma quali erano i rapporti fra questi due sommi conduttori? «Nel 1963 Karajan mi invitò al Festival di Salisburgo. Mi suggerì per l'occasione di interpretare una messa di Cherubini, ma io gli proposi Mahler: era arrivato il tempo per questo grande compositore. La Seconda sinfonia di Mahler, appunto non era stata ancora eseguita al Festival. Karajan acconsentì. In seguito anche lui si aprì a questa musica che ancora non aveva in repertorio. Nei primi anni della nostra conoscenza è stato di una grande generosità nei miei confronti, quasi come un padre».

La Filarmonica della Scala, la Gustav Mahler Chamber Orchestra, l'Orchestra della comunità europea, quella del Festival di Lucerna, la Mozart di Bologna. Innesti e coltivazioni musicali: Abbado giardiniere di ensemble strumentali. «Sono tanti nomi. Ma l'idea è una sola, che a un certo punto ha avuto un'evoluzione, per cui si parla prima dell'Orchestra giovanile della Comunità europea. Ma siccome i musicisti provenienti da Austria e Svizzera, allora Stati non comunitari, non potevano parteciparvi, decisi di fondare proprio a Vienna la Mahler Jugend Orchester, aperta a tutti gli strumentisti del mondo. Quindi il motto avrebbe potuto essere: Mahler a Vienna per andare dal Portogallo alla Russia, Israele compreso. Infine Lucerna, che riunisce tutti i migliori elementi di questi gruppi».

I suoi prossimi impegni concertistici e discografici per Dgg, con l'Orchestra Mozart, riguarderanno Pergolesi, così come quelli concertisti, il 4 giugno a Bologna e il 5 a Jesi per l'inaugurazione della rassegna di iniziative dedicatagli nel trecentesimo anniversario della nascita. «Un compositore straordinario, visionario, apprezzato anche da Bach e Mozart, che in un quinquennio riuscì a scrivere capolavori proiettati un secolo avanti. Con l'Orchestra Mozart di Bologna si è creato un rapporto molto bello. Anche lì ho la fortuna, la possibilità, di poter scegliere gli elementi migliori senza alcuna barriera, alcun limite. E partecipano tutti con grande passione».

A 76 anni Abbado continua a essere un magma ribollente di impulsi creativi. Neppure la malattia che lo ha colpito nel 2001 è riuscita a fermarlo. Al contrario, ha sublimato questa in uno stimolo. Di nuovo verrebbe spontanea la metafora d'un sapiente reinnesto del giardiniere. «Ho avuto questa mazzata e l'ho superata affrontando un'operazione molto difficile che mi ha costretto a rallentare i ritmi di lavoro e a far chiarezza in me stesso. Credo di essere riuscito a trasformare la malattia in qualcosa di positivo. Adesso è come se avessi incominciato un'altra vita». Con altrettante soddisfazioni? «Ancora di più». E sorride con levità. I suoi occhi scuri ma luminosi rappresentano una metafora della nostra esistenza, come il finale del "Falstaff" di Verdi, opera da lui particolarmente amata, "Tutto nel mondo è burla" recita. «Ci sono dei momenti in cui è meglio vedere la realtà con un certo distacco, con ironia». Ma precisa con puntiglio, «ironia che deve essere sempre costruttiva».

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