Quest’anno alla prima della Scala c’è il Verdi più bello

Per aprire la stagione, Riccardo Chailly ha scelto “Giovanna d’Arco”. Un’opera da molti considerata minore. «Giudizio del tutto sbagliato», dice il direttore d’orchestra. E spiega perché

Riccardo Chailly (foto: Teatro Alla Scala)
Riccardo Chailly è un musicista che non ama i convenevoli né l’ostentazione. Diversamente da altri suoi colleghi che si riempiono la bocca di parole altisonanti, retoriche, assumendo atteggiamenti un po’ esibizionistici, lui predilige la schiettezza. Un carattere in fin dei conti molto “verdiano”. Come al momento di salire sul podio: non indugia in camerino o al limite del palcoscenico prima di entrare  in scena. Come gli ha insegnato Herbert von Karajan, che lo fece esordire al Festival di Salisburgo, si presenta dinanzi all’orchestra e dà subito l’attacco (questo anche per non diluire la tensione drammatica).

Similmente, quando gli si chiede a bruciapelo perché un melomane che ama i consueti capolavori di Verdi da “Trovatore” a “Falstaff” dovrebbe interessarsi alla “Giovanna d’Arco”, con la quale aprirà la stagione della Scala il prossimo 7 dicembre, non usa perifrasi o giustificazioni, ma afferma perentorio:  «Quest’opera è una necessità imprescindibile per chi ama i suoi Requiem, “Aida”, “Rigoletto”, “Macbeth” e “Traviata”. Molti brani di queste partiture che le ho elencato sono in embrione già presenti, e molto evidentemente, in questa “Giovanna d’Arco”».

La "Giovanna d'Arco" di Giuseppe Verdi
E prosegue: «È una continua sorpresa scorrere le pagine di quest’opera e scoprire ogni volta cellule musicali che Verdi svilupperà successivamente. Inoltre ci si dimentica spesso che lui la predilesse e ci credette subito, fin dall’anno della sua creazione, nel 1845, riconoscendola come la migliore mai scritta. E consideri che aveva già composto “Nabucco” ed “Ernani”».

Ma le affinità e le citazioni di “Giovanna d’Arco” non riguardano solo queste cinque opere. Andando al dettaglio,  «nel prologo il profilo musicale e psicologico di Carlo VII è quello che sarà sviluppato nel “Don Carlo” e nel primo atto avvertiamo l’incipit, lo scatto del “Dies irae”: si gira insomma intorno alle stesse note, con la stessa veemenza. Mentre il duetto finale del primo atto prefigura il duetto del secondo atto di “Un ballo in maschera”.

La marcia del secondo atto porterà poi un’idea sinfonica sia nella scena dell’autodafé di “Don Carlo”, sia nella marcia trionfale di “Aida”. E la figura di Giacomo, padre di Giovanna, sarà sviluppata in Rigoletto. Mentre nel terzo atto, nella scena del rogo, troviamo elementi comuni con l’ultimo atto del “Trovatore”. Infine la scena della battaglia lascerà tracce nella successiva “Forza del destino”».

La "Giovanna d'Arco" di Giuseppe Verdi
Il soprano Anna Netrebko, protagonista nel ruolo del titolo del prossimo Sant’Ambrogio, è una star del belcanto e c’è chi le  addebita qualche capriccio da primadonna di troppo: «Ho incominciato le prove in questi giorni, quindi non mi posso ancora esprimere in maniera definitiva. Per quella che è la mia conoscenza personale, la ritengo una musicista assai professionale, molto “verdiana”, cioè di temperamento, nel senso buono. Nonché veramente innamorata del ruolo di Giovanna. Ne ha fatto anche un disco per Deutsche Grammophon registrato da una recita salisburghese, dal quale si intuisce in maniera vivida la sua passione fortissima per il personaggio. La sua è una vocalità assolutamente congeniale a questo tipo di canto. Anche il tenore Francesco Meli, che vestirà i panni di Carlo VII, ha dato un’eccellente prestazione in quell’occasione. Penso che i cantanti siano molto importanti in questo recupero: infatti quest’opera manca da troppo tempo alla Scala soprattutto a causa delle difficoltà insite nell’interpretazione vocale. Non dimentichiamo che nell’ultima ripresa di questo capolavoro nella sala del Piermarini, nel troppo lontano 1865, ci fu in scena la Teresa Stoltz, a cui Verdi era legatissimo. Questo perché l’autore sapeva che la difficoltà e la pericolosità vocale erano tali da mettere a rischio la felice riuscita dello spettacolo. Io, per mio conto, eseguii quest’opera venticinque anni fa al Teatro comunale di Bologna con la regia di Werner Herzog (spettacolo che può essere apprezzato in dvd, ndr) e un cast di prim’ordine formato da una straordinaria Susan Dunn, Renato Bruson e Vincenzo La Scola: fu un grande successo».

Proprio all’inizio del mese Chailly, direttore principale (dal 2017 musicale) della Scala, ha aperto con un concerto la stagione sinfonica della Filarmonica scaligera, della quale ha assunto il ruolo di guida stabile. L’orchestra fondata da Abbado che, formata dalla maggioranza dei professori scaligeri, affronta il repertorio sinfonico affiancandolo all’attività lirica. Spiega Chailly: «Fa parte della tradizione del teatro, da quando Toscanini volle dare all’orchestra, sin dalla sua nascita votata al melodramma, anche un’identità sinfonica. Il cimentarsi in tale repertorio, sugli autori del Novecento e sui contemporanei, aggiunge una maturità e una duttilità stilistica che può poi riverberarsi sui linguaggi già noti dell’opera».

Nel primo concerto è stata eseguita la Terza sinfonia di Rachmaninov, l’indizio di una futura integrale. «Tre sinfonie mature più una giovanile, che è un gioiello di dodici minuti, e le danze: un totale di cinque pagine orchestrali che desidero mettere in programma anche nelle nostre tournée internazionali». 

Questi grandi autori russi hanno una facilità melodica paragonabile a quella degli italiani. «Trovo che ci sia un pericolo di equivoco storico nei confronti di Rachmaninov e di Ciaikovskij, il suo maestro spirituale», obietta Chailly, «simile a quello che c’è stato per Puccini. Il loro lirismo è stato frainteso per troppo tempo. Un errore di lettura che nasce da interpretazioni che hanno dato un profilo non esatto di quelli che sono il significato e i pregi ultimi del messaggio e dello stile di questi grandi autori. Il rigore formale della scrittura di Rachmaninov, così come di quella di Puccini o di Ciaikovskij, oltre che il rispetto delle loro indicazioni metronomiche, ci fanno capire quanto sia importante, per comprenderli pienamente, l’eccezionale valore armonico, insieme al formidabile talento nell’orchestrazione. Per fortuna ci sono grandi interpreti che hanno saputo rimanere nei canoni del rigore e se uno ascolta in cd la “Bohéme” diretta da Toscanini o le sinfonie di Ciaikovskij da Mravinskij ha degli esempi di riferimento».

La Scala, la Filarmonica scaligera, dal 2016 il prestigioso Festival di Lucerna: Chailly ha “ereditato” tre importanti cariche da Claudio Abbado. Gliene chiediamo una memoria a quasi due anni dalla morte: «Gli dedicherò il primo concerto a Lucerna, con l’Ottava sinfonia di Mahler che non vi diresse mai. Di lui ricordo l’attitudine di un camerino sempre aperto, accessibile a tutti, la totale apertura al dialogo e al confronto musicale, segno di un atteggiamento che ha lasciato in me tracce durevoli, oltre ai suoi insegnamenti professionali. Tanta leggerezza sul piano dei rapporti interpersonali conviveva in lui con una ferrea determinazione nello studio, nel realizzare i progetti, nel non scendere a compromessi. Ci rivedo percorrere insieme con gli occhi le partiture delle Sinfonie di Brahms a cui aggiungeva notazioni sempre importanti e puntuali da riportare poi in sede di concertazione. Questo lavoro di scavo nella partitura è stato parte integrante della mia formazione e, sedimentato e trasformato dall’esperienza personale, è rimasto nelle mie interpretazioni». 

Abbado fu sempre contro il taglio dei fondi statali agli enti culturali. «È un segnale allarmante. Qualsiasi sia l’orientamento, giustificato dai fatti, dagli eventi o dalla situazione generale economica: posso capire, ma non approvare. La cultura è patrimonio dell’umanità. Ma non per una generazione: per sempre».

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