Il più grande mall d’Italia sarà attivo, per la prima volta, anche il 25 dicembre, ormai ultimo giorno "tabù" per i servizi commerciali. I dipendenti protestano ma i clienti non mancano

Il centro commerciale aperto anche a Natale: modernità o sfruttamento?

Sì, «esortiamo i cattolici e tutti coloro con un po’ di buon senso a non recarsi nei centri commerciali la domenica e le feste comandate, i lavoratori non sono comprabili solo perché tu paghi. Sì, andarci è un peccato da confessare, anche se non nei termini del dogma. No, come Ufficio pastorale, sociale e del lavoro della Diocesi di Bergamo non abbiamo ancora condiviso con altri soggetti la protesta contro l’annunciata apertura di Oriocenter nelle prossime festività, ma la appoggiamo. No, non mi risulta che al momento le numerose associazioni cattoliche presenti a Bergamo abbiano preso posizione sulla vicenda...»

Il motivo per tormentare così don Cristiano Re, che dell’Ufficio pastorale è il direttore e, indisponibile il vescovo, risponde per la Curia, è che qui nella cattolicissima bergamasca, in quell’Oriocenter creatura di Antonio Percassi in faccia all’aeroporto, il più grande shopping center d’Italia, battistrada a ogni rivoluzione del commercio, sta per scoppiare la guerra di Natale. Mille firme sono state apposte, su tremila dipendenti dei 280 negozi, bar e ristoranti della struttura, in calce alla petizione «Santo Natale, Santo Stefano, Capodanno non si lavora!», altre si stanno raccogliendo, si parla di scioperi e picchetti. Per essere precisi, la laconica comunicazione del Consorzio Operatori Oriocenter annunciava l’apertura totale il 26 dicembre, prima volta nella storia, dalle 9 alle 22 come in un giorno qualsiasi, e fino alle 23 per la ristorazione nella nuova ala inaugurata lo scorso giugno dove si dovrà lavorare, dalle 17, anche nei giorni di Natale e Capodanno.

Per prime si sono mosse un gruppetto di dipendenti, qua 9 lavoratori su 10 sono donne: «Mio figlio è di serie B, che non posso stare con lui nemmeno a Santo Stefano? Mio marito vale meno del marito di una cliente, la domenica a mangiare dai suoi mentre io lavoro? Blaterano della famiglia e la sfasciano perché guai se le mutande non le compri proprio quel giorno lì?», attaccano Simona, Monica, Manuela, Maria Teresa, 1100 euro al mese, lo stipendio medio di una commessa per 40 ore settimanali con turni bizzarri e spezzati, anche se ogni esercizio commerciale fa da sé. Almeno loro sono a tempo indeterminato: il precariato s’attesta sul 15 per cento, «in crescita tra le nuove assunte».

A ruota sono arrivati i sindacati, Fisascat-Cisl in testa, il più forte. Se poca presa ha un cattolicesimo ridotto a blanda consuetudine, senza più pregnanza prescrittiva e smemorato del terzo comandamento, ricordati di santificare le feste, neanche i sindacati sono messi tanto bene: da quando Oriocenter ha inaugurato nel 1998 si sono persi per strada una festa dopo l’altra, cedendo prima due domeniche al mese poi tutte e quattro, il 2 giugno della Repubblica, Ognissanti, l’Epifania, l’Immacolata, Ferragosto, Pasquetta, persino il 1° maggio: tutte cadute come birilli sotto i colpi vuoi della crisi - se non vendiamo chiudiamo e tu resti a casa - vuoi dei cambiamenti nei comportamenti di noi consumatori secolarizzati e liberalizzati, frequentatori compulsivi delle nuove piazze e città coperte, compratori documentatamente ancora più frenetici e onnivori proprio nelle feste comandate.

Facendo due calcoli, 11 milioni di visitatori l’anno significa una media di 30 mila al dì, il doppio nelle giornate di saldi quando gli shop restano aperti fino a mezzanotte. E 400 milioni d’incasso complessivo fa 36 euro a testa: che è un bello spendere, se conti i turisti con quattro ore fra un aereo e l’altro e le valigie già zeppe e, fenomeno dilagante, le ragazzine qui per postare selfie con indosso capi che la paghetta non permette di acquistare.

Coppie, famiglie, raminghi pensionati e grappoli di giovani, perbenino e sciamannati: lo sterminato ceto medio, che sarà pure falciato dalla crisi e a rischio povertà ma resta sempre l’enorme pancia del paese, finisce tutto qui, in questo mastodonte grigio con le nervature diagonali di impianti e scale di servizio, solcato la notte da luci orizzontali e una cascata di led bianchi e blu, istoriato di farfalle a ingentilire una struttura industriale, la fabbrica contemporanea più grande delle vecchie fabbriche e che più di queste genera occupazione. Come nelle città, è un popolo di millepiedi, dal numero dei negozi di scarpe. Non legge gran che i giornali, l’edicola ha chiuso quattr’anni fa e solo da poco l’ipermercato Iper ne ha aperta una dove vende anche fiori. Nelle due librerie compra Fabio Volo, Dan Brown, Michelle Hunziker schiava di una setta. Gioca alle slot, ce ne sono tre o quattro in una tabaccheria, più un distributore automatico di gratta e vinci. Divora pizze e street food, incasso raddoppiato dal 2010, al 12 per cento. Fa la coda per l’iPhone X all’Apple store mollando i bimbi da Lego e Disney. È un po’ meno spendaccione in abbigliamento, calato di sei punti dal 40 per cento, ma un po’ più in intimo, sport, balocchi e profumi. Compra nei marchi presenti ormai in ogni città, ma qua ci sono proprio tutti, uno accanto all’altro. Manca solo il lusso: non ci trovi Gucci o Vuitton o D&G, quelli stanno negli outlet padani dove sciamano i russi. E già i negozi coi prezzi appena un po’ più alti della media sono quasi vuoti.

Come in una città, all’Oriocenter è difficile trovare parcheggio nonostante i seimila posti divisi per colore: finisci in un carosello di auto che s’incrociano e scavallano da un colore all’altro per interminabili quarti d’ora, le dipendenti senza uno spazio riservato sono costrette a volte a lasciare l’auto fuori nei campi o a uscire nel deserto all’una di notte. Come in una città, vi si svolgono eventi vari: la Festa della Polizia e i frati cappuccini a evangelizzare gli astanti, la raccolta fondi per le missioni e i coccodrilli della Cracking art, Fedez&J-Ax e l’elettrocardiogramma gratis nella giornata del cuore alla smart-clinic con dieci ambulatori dai prelievi agli interventi oculistici aperta dopo che è fallita la palestra, la curva dell’Atalanta a incitare la squadra sul maxischermo e i pensionati la mattina a consumare colazione + film euro 5,90.

«Non è uno shopping center, è un polo multifunzionale di aggregazione», s’inorgoglisce Giancarlo Bassi, presidente del Consorzio operatori Oriocenter, buttando lì «come un grande oratorio di paese», lui che di anni ne ha 67 e all’oratorio c’è cresciuto, e difendendo la scelta dell’apertura festiva, come potrebbe mai il grande oratorio chiudere il dì di festa.

Il perfetto non-luogo, secondo la formula coniata un quarto di secolo or sono da Marc Augé? Certo. Ma invece di usarla come grimaldello, è il caso di ragionarci un po’ su. Non-luogo è la traduzione letterale di utopia. E siccome le parole mentono meno di chi le usa, per scandalosa che suoni, la verità è che questa dove siamo è l’utopia realizzata. Il falansterio disegnato da Charles Fourier, dove ognuno ha accesso ai beni secondo i suoi desideri e passioni. Proprietà a parte, s’intende, che è dei tedeschi di Commerz Real, ramo di Commerzbank, dell’Iper per il suo parallelepipedo, di Nh per il nuovo hotel e di Percassi, al momento, per cinema e food court.

Per il resto, come il Nuovo mondo amoroso del francese, Oriocenter è rigidamente strutturato e irreggimentato: «La direzione dà le regole e tutti le rispettano. Il commerciante è come un animale selvatico, tu crea l’ambiente e i servizi e lui arriva, abbiamo un centinaio di richieste per affittare gli spazi», vanta Bassi il presidente, lui stesso operatore con quattro esercizi; se a Santo Stefano uno shop tenesse chiuso «pagherebbe una pesante penale e rischierebbe per contratto di essere estromesso». Come lo spazio dell’utopia, Oriocenter è massificato e universalista: anche nel più grande e bello shopping center entri sempre in un déjà vu. Ma anche maniacalmente differenziato e individualizzato per gusti e predilezioni di consumo: ti piacciono i wafer? Ce n’è un negozio intero. I ciucci di gomma? Settecento contenitori impilati su dieci metri d’altezza, fin dove arrivi compri, sopra è déco.

Autoreferenziato e avviluppato su se stesso come un falansterio, «che può essere percorso tutto in una lunga galleria coperta», anche qui, lamentano le commesse, «non vediamo mai il sole». Come ogni utopia, Oriocenter è totalizzante e onnivoro, in due anni s’è divorato in provincia un migliaio di piccoli esercizi. Ha un’irrefrenabile propensione a ingrandirsi, nonostante gli esercenti delle prime due ali lamentino che la nuova aperta a giugno abbia cannibalizzato e spalmato i clienti e danneggiato gli affari. E ha una pulsione a riprodursi altrove, uguale, anzi più grande, secondo un nuovo progetto di Percassi da realizzare fuori Milano.

Come ogni utopia, da ultimo, anche questa ha la sua sottesa distopia: i lavoratori nelle viscere della gigantesca macchina della felicità dedita a orientare e soddisfare i desideri dei consumatori. Stranieri quasi solo nella sorveglianza e nelle pulizie, italiani quasi tutti gli addetti agli shop. Quelle commesse che da questo mondo ideale, utopia realizzata, paradiso delle signore, dei signori, dei bambini e persino dei cani che qui lasciano entrare senza problemi, almeno a Natale e a Santo Stefano vorrebbero inopinatamente evadere.

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