Arriva nelle sale 'A proposito di Davis', ispirato alla biografia di Dave Van Ronk  e colmo d’amore per la musica folk degli anni fra i Cinquanta e i Sessanta. Un film circolare, in cui in qualche modo, nella breve avventura del protagonista tutto torna su se stesso

New York, 1961. In un locale del Greenwich Village, Llewyn Davis (Oscar Isaac) suona la sua chitarra e canta “Hang me” (impiccatemi), vecchia canzone folk. D’altra parte, dice al pubblico che applaude, se una canzone è folk è anche vecchia. Qualche minuto dopo, uscito sul retro, uno sconosciuto lo prende a pugni e calci. Inizia in questo modo “A proposito di Davis” (“Inside Llewyn Davis”, Usa e Francia, 2013, 104’). E in questo modo finisce, quando ormai al giovanotto tutto è accaduto, o forse niente.

Ispirato alla biografia di Dave Van Ronk, e colmo d’amore per la musica folk degli anni fra i Cinquanta e i Sessanta, il film di Ethan e Joel Coen è costruito come un cerchio. In qualche modo, nella breve avventura di Llewyn tutto torna su se stesso. Così accade, per esempio, in un racconto nel racconto che i due fratelli dedicano a un bel gatto fulvo. Ospite di una coppia di amici, Llewyn se lo perde per le strade di New York, lo rintraccia e lo riperde (ma la storia è più complicata). Alla fine, il gatto ricompare nella casa di quella stessa coppia. Ci è tornato da solo. Il suo nome è Ulisse.

Come l’eroe omerico, anche il giovane musicista compie la propria odissea.

La meta del suo viaggio da un locale all’altro del Village - e anche verso Chicago, in compagnia di Roland Turner, un orrido “ciclope” che ha la stazza di John Goodman - è insieme prosaica e utopica. Da un lato, Llewyn cerca qualche dollaro per sopravvivere. Dall’altro, insegue la perfezione artistica.

Figlio di un vecchio marinaio, e marinaio egli stesso, è certo che la vita non debba esser perduta sognando inutilmente di scovare branchi di aringhe, per poi finire in un ospizio, inebetito e in attesa di morire. L’alternativa, se c’è, è l’autenticità che immagina di trovare nella musica. Questa è o dovrebbe essere la meta ultima della sua odissea. Ma non c’è, quella perfezione. O se c’è appartiene ad altri (da lì a poco nel Village trionferà Bob Dylan). Quanto a lui, si trova a metà strada fra chi accetta di vivere una vita che si perderà nel nulla, e chi riesce a raggiungerlo, il branco di aringhe. La sua posizione è la più scomoda. I primi non sanno come finirà. I secondi si consolano con quello che hanno raggiunto.
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Lui sa di non avere niente, e che niente avrà. La sua odissea non va da nessuna parte. Torna da dov’è partita, come quella del gatto Ulisse. Tutto ciò che gli resta è un energumeno che lo picchia, e la sua chitarra per cantare “Hang me.” La canzone è vecchia come tutte le canzoni folk, ma non smette d’avere senso

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