«Mafia fai schifo». Tre parole. Dirette. E in diretta, su Rai Uno. Parole non pensate, non ragionate: parole uscite dal cuore, d’istinto, con violenza. Sono quelle tre parole il mio ricordo immediato legato alla strage di Capaci.
Ero in tour con il Cantagiro quando arrivò la drammatica notizia, e sul palco – insieme a Mara Venier e Gino Rivieccio – rendemmo omaggio a Giovanni Falcone. Quel «Mafia fai schifo» era però un fuori copione: era la voce che avevo dentro, era la voce della mia terra, era la voce di chi era nato e cresciuto con una uniforme in casa.
«U figghio ro sbirru», il figlio del poliziotto: quante volte me lo ero sentito ripetere, una sorta di presa di distanza, di sfottò, di offesa per essere figlio di un padre appartenente alla Guardia di finanza. Quelli considerati fighi infatti erano i figli dei contrabbandieri, dei delinquenti, delle famiglie affiliate a qualche clan: noi, figli degli uomini di Stato, eravamo quelli presi in giro, quelli da disprezzare, quelli di cui essere diffidenti perché «stavano dalla parte giusta».
Una percezione che si è mantenuta nel tempo, tanto che più di una volta mi hanno chiesto di partecipare ad incontri in cui spiegare alle figlie e ai figli di carabinieri, poliziotti e qualsiasi altra arma quale debba essere – invece – l’orgoglio, la consapevolezza e l’ammirazione nell’avere un padre o una madre al servizio dello Stato. Stato verso il quale, lo ammetto, per un attimo ho perso la fiducia in seguito al secondo attentato, con l’omicidio di Paolo Borsellino.
Ero incredulo davanti alla televisione, ho ancora impressa nella memoria un’intervista al magistrato Antonino Caponnetto che davanti ai microfoni riassunse tutto il suo dolore, tutto il suo sconforto in una frase: «Ora è finita». Davanti a quello che sembrava il levarsi di una bandiera bianca tra me e me mi dissi: «Minchia, ma qui li ammazzano tutti. Allora è proprio vero che non si può fare nulla». Mi sbagliavo.
Il dramma di quei giorni aveva offuscato la forza, la voglia di riscatto, il desiderio di cambiamento della mia Sicilia. Il sacrificio di Falcone e Borsellino – ma anche quello degli altri giudici e tutti gli uomini delle loro scorte – è come se avesse fatto capire a noi siciliani che un’altra realtà era possibile, un altro futuro era possibile. Ma quella possibilità era solo, unicamente, nelle nostre mani. Una trasformazione culturale lenta, faticosa, tra mille ostacoli.
Grazie all’impegno dei giovani, della società civile, di uomini e donne coraggiose che hanno messo in pericolo la propria vita, hanno subito minacce e ritorsioni, sono – e sono stati – costretti ad avere la scorta giorno e notte: imprenditori e politici, giornalisti e attivisti, negozianti e politici. Ognuno nel proprio ruolo, ognuno nel proprio piccolo, ognuno nel proprio ambito. Un pezzettino alla volta, per creare un’alternativa credibile, vera e quotidiana alla mafia.
Ecco, l’indimenticabile e rassicurante sorriso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perennemente incorniciato dalle nuvole di fumo delle loro sigarette, lo voglio dedicare a loro e a noi, ai siciliani che si sono ripresi la Sicilia. Grazie a tutti da Rosario Fiorello, u figghio ro sbirru.