Caporalato, estorsioni, prostituzione, sequestri. L’omicidio di un bracciante a Caltanissetta squarcia il velo su una cosca sconosciuta ma collegata a quelle italiane (Foto di Francesco Bellina per L'Espresso)

Così la mafia pakistana sfrutta e uccide gli immigrati

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«Justice for Adnan»: con gli occhi pieni di lacrime e rabbia, decine di ragazzi pakistani chiedono che venga fatta luce sulla morte di un loro amico. Non lo gridano tra i palazzi di Islamabad ma in corso Umberto I, nel cuore di Caltanissetta, a pochi passi da via San Cataldo. Dove, tra le vecchie case malconce del centro storico, alcune occupate abusivamente, abitava Adnan Siddique, giovane pakistano ucciso a coltellate, lo scorso 3 giugno, per aver squarciato il velo su una nuova realtà criminale che ha il suo centro nella città nissena.

Per il suo omicidio sono stati finora arrestati quattro pakistani (e altri due sono stati fermati per favoreggiamento). «Ma il resto dell’organizzazione è ancora a piede libero», ci spiega Alì, amico di Adnan, 35 anni, uno dei pochi nel gruppo che parla bene l’italiano: «Abbiamo un po’ di paura, ma siamo qui perché lo dobbiamo ad Adnan e alla sua famiglia. Vogliamo la verità su quanto sta succedendo ai migranti che lavorano nelle campagne tra Caltanissetta e Agrigento».

“Caporalato”, si è detto dopo quel delitto, deciso dalla banda perché Adnan aveva accompagnato due suoi connazionali a denunciare il lato oscuro della comunità pakistana. Ma quell’omicidio rivela qualcosa di più: un’organizzazione criminale radicata, responsabile anche di molti altri reati, una sorta di mafia pakistana con un filo diretto con il Paese d’origine e le cui vittime sono il più delle volte altri pakistani, ma anche afghani e africani. Di questa organizzazione il caporalato è solo uno dei settori d’attività: «Chi arriva a Caltanissetta per trovare lavoro si rivolge a questi personaggi», spiega il colonnello dei carabinieri Baldo Daidone, in prima linea per scoprire cosa si nasconde dietro la morte di Adnan. «Si tratta di una intermediazione lavorativa diversa dal classico caporalato, su cui stavamo già lavorando e su cui continuiamo ad indagare».
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Uno dei ragazzi che dopo il delitto continua a lavorare nei campi, non vuole dire il proprio nome ma mostra la chat Telegram in cui i “capi” cercano persone da sfruttare. Non c’è ancora il sole quando su automobili e pulmini, nel cuore della “Strata ’a Foglia”, decine di pakistani vengono prelevati e trasportati nelle campagne di Delia e Sommatino per la raccolta degli agrumi e della celebre “uva Italia” tipica di queste terre. «Anche il viaggio si paga», racconta il ragazzo, «dobbiamo dare 5 euro e alla fine non ci rimane quasi nulla».

Gli sfruttati non solo pakistani, si diceva: gli ultimi a essere finiti nel gorgo, ad esempio, sono i somali. Roba facile, il procacciamento dei migranti, vista la presenza del centro di accoglienza appena più in là, in contrada Pian del Lago.

Secondo Ignazio Giudice, segretario provinciale della Cgil di Caltanissetta, «esiste un caporalato variegato, fatto di contratti e buste paga finte, assenza di copertura infortunistica, evasione fiscale, criminalità organizzata che gestisce i braccianti. Bisognerebbe intervenire, fare i controlli nelle aziende agricole del territorio provinciale. Nelle campagne spesso si consumano reati non solo legati allo sfruttamento del lavoro, ma anche al procacciamento di documenti, di affitti delle case in nero dove vanno ad abitare i loro connazionali e altro ancora».
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E proprio questo aveva denunciato Adnan, per aiutare i suoi amici, come raccontano al bar dove lui andava ogni giorno e in cui oggi, nonostante la paura di ritorsioni, i proprietari ancora chiedono giustizia perché «Adnan era buono».

In quella stradina, dove ogni giorno si tiene il mercato della frutta, con le insegne in doppia lingua, c’è la foto di Adnan, diventata un simbolo. Ma anche prima lui era un punto di riferimento per molti suoi connazionali, circa 1.300, oggi, nel territorio nisseno.

Per capirne di più andiamo a parlare con Filippo Maritato, barba bianca e pipa in bocca, presidente della Casa delle Culture e del Volontariato, creata a Caltanissetta durante il periodo della grande immigrazione dei siriani. Tramite un finanziamento Maritato ha fatto ristrutturare un’ex scuola e ne ha fatto la sede della sua associazione, dove i volontari si riuniscono e provano a produrre «nuova linfa vitale per questa città che sembra assopita»: dall’assistenza sanitaria a quella carceraria per i circa 200 migranti detenuti al Malaspina, fino al banco alimentare, nello sforzo di creare le condizioni per una vera accoglienza fatta di integrazione e legalità.

Dopo l’omicidio di Adnan Siddique, Maritato ha riunito i pakistani e con loro ha cercato di capire cosa si nascondesse dietro quell’agguato - e quanto il fenomeno del caporalato sia in mano a questa banda di criminali. «Così abbiamo scoperto che da almeno due anni Adnan era stato minacciato», ci spiega. «E non era il caporalato la sola attività di questo gruppo di pakistani. C’era stato, ad esempio, anche il tentativo di avvicinare delle ragazze dominicane per costringerle alla prostituzione. E dell’altro ancora».
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“L’altro ancora” è un giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio, perlopiù giovani, nello storico mercato “Strata ’a foglia” di Caltanissetta. E se i ragazzi delle bancarelle non versano il pizzo o si ribellano, vengono picchiati e minacciati direttamente i loro parenti in Pakistan.

La squadra mobile della questura di Caltanissetta, subito dopo l’omicidio di Adnan, ha intercettato il telefoni di Bilal Muhammed (uno degli arrestati) a colloquio con un certo Chery, diminutivo di Sharyeal: «Fammi sapere quanti nomi mettono nella denuncia», chiede Bilal al suo interlocutore, e poi aggiunge: «Fratello, digli a Dani Rana di non fare il testimone perché altrimenti non diamo pace alla sua famiglia (in Pakistan, ndr) e gliela mettiamo nel culo. Abbiamo fatto sapere a Rana che abbiamo minacciato la sua famiglia».

Un sistema di ricatti e intimidazioni che costringeva al silenzio i pakistani, come racconta uno di loro all’Espresso: «Questa banda era nota, qui in zona, però nessuno aveva il coraggio di denunciarli. A me dovevano pagare una giornata di lavoro ma quando ho chiesto i soldi, Bilal mi ha detto di non lamentarmi, sennò finivo nei guai».
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Adesso a Caltanissetta Alì e i suoi amici pakistani hanno dato vita a un comitato permanente, portando alla luce nuovi elementi: ad esempio, hanno trovato una specie di libro mastro in cui la banda segnava le giornate lavorative e alcuni nomi dei caporali e dei padroni italiani. Una volta al mese i ragazzi del comitato si incontrano con Filippo Maritato e i volontari italiani. Sono loro che hanno rinvenuto a casa di Adnan la copia originale dell’ultima denuncia. Due giorni prima di essere ammazzato, Adnan aveva accompagnato un suo connazionale a denunciare quello che gli era successo, cioè un rapimento: era stato prelevato con forza dalla banda nella sua abitazione di Caltanissetta e portato in macchina a Canicattì, in una casa di italiani. «Mi hanno obbligato a chiamare mio fratello in Pakistan per dirgli di pagare tremila euro. Quando lui ha pagato (con un money transfer), mi hanno lasciato andare, minacciandomi di uccidermi se avessi denunciato l’accaduto», si legge nella denuncia dell’amico di Adnan.

Un altro sequestro porta invece a Sommatino, nell’entroterra nisseno. Un rapimento con la richiesta di un riscatto di cinquemila euro, dietro la minaccia di uccidere il padre della vittima, in Pakistan. Il ragazzo era stato portato anche lui sempre in quella stessa casa di italiani a Canicattì. Sì, perché la mafia pakistana lavora per conto di italiani, ci racconta anche Adu (nome di fantasia per tutelare l’identità della nostra fonte), il quale a sua volta dice di essere stato picchiato selvaggiamente da 12 pakistani che erano arrivati in tutta calma a casa sua, attraversando l’intero paesino. Gli chiedevano dei soldi, di quelli che guadagnava come bracciante. Uno dei pakistani che lo hanno picchiato, un mese dopo sarà arrestato nella vicenda Adnan. «Perché nessuno ha fatto dei controlli dopo la mia denuncia? Ora hanno arrestato sei di loro, ma tutti gli altri sono ancora fuori. Io e gli altri abbiamo paura», dice. Ma l’anello mancante è rappresentato proprio dagli italiani: piccoli e grandi proprietari terrieri delle aziende locali a cui fa comodo la manodopera a basso costo. Ora le indagini dovranno scoprire per chi lavora la mala pakistana, chi c’è in quel “secondo livello” sopra i kapò che sfruttano, minacciano, picchiano e rapiscono i loro connazionali.

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