Si intitola 'Le principesse di Emma' la rilettura visionaria che la regista palermitana ha fatto di alcune note favole dei fratelli Grimm. Non solo riadattandole all'oggi, ma mettendo in discussione anche la morale originale

Il trucco, per gustarle meglio, è leggere ad alta voce. Con l’enfasi di una nonna che racconta, e l’indugio sui termini gergali: in quel siciliano caricaturale e onomatopeico che, quando vuole, smette di essere dialetto e diventa koinè globale.

“Le principesse di Emma” (edito da Baldini&Castoldi), dove Emma sta per la regista palermitana Emma Dante, è una trilogia che riunisce “Anastasia, Genoveffa e Cenerentola”, “Gli alti e bassi di Biancaneve” (già usciti qualche anno fa per La Tartaruga) e l’inedita “La bella Rosaspina addormentata”. Ed è una rilettura visionaria delle più note favole dei fratelli Grimm. Un libro singolare, a partire dal target di lettura: i più piccoli, ai quali queste storie sono da sempre destinate? O gli adulti, più in grado di intercettare l’ironia di una riscrittura dove di tradizionale, nella forma e nella sostanza, non resta alcunché?

Il filone è quello del revisionismo letterario: l’idea di rilanciare le fiabe dell’infanzia, riadattandole a un mondo dove non solo scenario e modelli sono cambiati, ma persino la morale originale è in discussione. Operazione ricorrente: da “Biancaneve bella sveglia” di Francesca Crovara ed Emanuela Nava (Carthusia) alla “Cenerentola” griffata di Steven Guarnaccia (Corraini); da “La bella addormentata è un tipo sveglio” di Annalisa Strada (Piemme), dove Aurora, una volta ridestata, non ci pensa proprio a convolare a nozze col bel principe, fino alle tante varianti di Cappuccetto Rosso (Teresa Buongiorno, in “Dizionario della fiaba”, Lapis, ne fa una lunga carrellata); da Roberto Vecchioni (“Diario di un gatto con gli stivali”, Einaudi) a Vladimir Luxuria (“Le favole non dette”, Bompiani), tanto per non scomodare i maestri della psicoanalisi, non si contano più le riproposte pop dell’immaginario infantile. Obiettivo: fare falò delle versioni originali, discriminatorie e sessiste. E, soprattutto, irrobustire l’identità delle bambine con colpi di scena dalla loro parte. Cedendo, talvolta, alla tentazione di strafare.

[[ge:rep-locali:espresso:285144933]]Qui è una realtà pragmatica e disincantata a prendere il posto delle atmosfere Disney dai colori saturi: i sette nani sono minatori che hanno perso le gambe; Cenerentola si chiama Angelina e rimpiange il padre che l’“annacava” (cullava) chiamandola “picciridda mia”; la regina di Biancaneve interpella lo specchio mentre si depila col rasoio. E Maria Pina, alias Rosaspina, canta a squarciagola De André: «Mentre attraversavo il London Bridge, un giorno senza sole... vidi una donna piangere d’amore, piangeva per il suo Geordie».

L’autrice frulla tutto, stereotipi e aspettative, con la passione e l’audacia alle quali ci ha abituati nei suoi lavori sul palcoscenico: da ultimo “Gisela!”, opera di Hans Werner Henze, con la quale ha appena aperto la stagione del Teatro Massimo di Palermo.

Un ruolo decisivo hanno i disegni dell’illustratrice e color designer Maria Cristina Costa, che sottolineano il testo e lo rafforzano, giocando con distorsioni, caricature e segni particolari: nei, baffi, ghigni che raccontano, dei personaggi, qualità morali, caratteristiche fisiche, difetti. Puri divertissement: come i collant che sciattamente scivolano dalle gambe della cattiva di turno.

Perché i conti tornano sempre. Anche quando i finali cambiano e i ruoli s’invertono, chi la fa l’aspetti: vedi la matrigna e le sorellastre di Cenerentola, trasformate in mastino napoletano con due zecche incorporate. E che importa se Rosaspina, smascherato l’amato, scopre che è una donna (dai capelli blu). Lo stupore svanisce con la bellezza di un bacio esagerato. E vissero felici e contente.

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