Roberto Cotroneo: "La letteratura deve cambiarci. E far crollare ogni nostra certezza"

Lo scrittore è tornato nella sua città d’origine, Alessandria. Per rievocare la storia di Aldo, insegnante che aveva fatto parte della Resistenza. Il risultato è "La nebbia e il fuoco": un viaggio nella memoria. Una riflessione sul silenzio, sul rigore, sull'antiretorica. Nella vita e nella scrittura

La nebbia è quella della pianura piemontese, che avvolge Alessandria, la città in cui lo scrittore Roberto Cotroneo è nato. Il fuoco è quello delle passioni, del sapere, della poesia, della lotta per la libertà. Tra l’una e l’altro, punti cardinali e stati d’animo, emozioni e ispirazioni, si muove “La nebbia e il fuoco” (Feltrinelli), l’ultimo libro di Roberto Cotroneo, giornalista, scrittore, editor della narrativa e saggistica italiana di Gramma Feltrinelli. La storia di un ritorno - in una città da cui è fuggito, sempre che si possa davvero andare via da un posto da cui si è lontani. E della riscoperta di un uomo di straordinaria cultura, capace di aprire decisivi varchi di curiosità: sulla vita, su ciò che conta, sulla letteratura, da Joyce a T. S. Eliot, da Samuel Beckett a Ionesco, da J.D. Salinger a Noam Chomsky. Un insegnante spiazzante, Aldo, professore di inglese che mai raccontò di essere stato comandante di brigata con i partigiani di Giustizia e Libertà, insieme ad altri ragazzi che combatterono e persero la vita non per fame di eroismo, «perché nessuna guerra è eroica», ma perché quello era il loro destino. «Un capo partigiano che non ha lasciato qualcosa di scritto, perché tutto aveva letto e niente c’era da aggiungere»: Cotroneo lo racconta così, saldando il conto con una lettera mai spedita, presagio di un’incompiutezza che lo ha accompagnato ma «che è una forma alta, importante, di letteratura e arte». E il risultato è memoir e ricordo, omaggio affettuoso e ricostruzione storica. Geografia che diventa mappa collettiva. E invenzione e testimonianza. Una grande prova di stile e di equilibrio che diventa il prodigio di un romanzo, anzi «il solo modo in cui oggi si possono scrivere i romanzi: senza voler persuadere retoricamente il lettore. È la direzione opposta della maggior parte dei libri che si pubblicano, dove conta il plot. Questa non è la storia di un uomo ricostruita attraverso la vita, i documenti, le testimonianze. È un libro di incastri complessi, di nebbia e fuoco, appunto. Un po’ mi spaventava l'idea di scrivere un libro del genere, tenendo conto di quello che sta avvenendo nella letteratura contemporanea».

 

 

Che cosa sta avvenendo?

«È come se il letterario perdesse terreno. Questo è un libro “sebaldiano”, dove tu continui a stare in una sorta di indefinito, però pieno di cose: c’è la Resistenza, l’antinarcisismo di un’epoca diversa, la letteratura e una città che diventa essa stessa personaggio».

 

In circolazione c’è una forte inclinazione ai generi, in effetti. Gialli, soprattutto.

«Esattamente. Ma perché se ne scrivono tanti? Perché tranquillizzano, sono storie che si aprono e si chiudono. Ci pensi un attimo: i gialli che amiamo di più, però, – i cui autori non sono nemmeno veri giallisti – sono quelli di Sciascia e di Simenon. Con loro inizi che il mondo è in ordine e finisci che il mondo è in totale disordine: nella maggior parte dei casi, invece, oggi il disordine è iniziale e tutto torna in ordine alla fine. Ma la letteratura serve a disordinare il mondo, non a ordinarlo». 

 

La letteratura deve scomodare?

«Deve cambiarci. Noi cominciamo a leggere qualcosa e pensiamo che le nostre certezze siano incrollabili; finito di leggere non abbiamo più alcuna certezza».

 

Nel disorientamento in cui viviamo, persino le storie devono lasciare incerti?

«Sì, è un modo per vaccinarci. Una volta il mondo era più sicuro e la letteratura incerta. Se la letteratura oggi dà certezze andiamo in tilt su tutto, perché non riusciamo ad accettare quello che non riusciamo a spiegare. La maggior parte della tradizione letteraria del Novecento è fatta da autori che non trovano una logica e la cercano, senza linearità di racconto. Oggi abbiamo abituato i lettori a qualcosa di molto più semplice».

 

Come mai?

«Per l’idea che quello che il lettore non capisce non compra e quello che il lettore non compra non è un bestseller. Dunque non conta».

 

Il mercato detta le regole. La stupisce, considerato il numero basso di lettori italiani?

«È vero, ma i due più grandi scrittori del secondo Novecento italiano, ovvero Carlo Emilio Gadda e Giorgio Manganelli, non hanno mai venduto una copia dei propri libri. Ma non li vendeva nemmeno Calvino. Calvino era popolare, i suoi libri andavano nelle scuole,  “Palomar” però non so quanto abbia venduto».

 

Va detto che il numero dei libri venduti allora e quelli di oggi sono inconfrontabili.

«Oggi un libro medio di narrativa vende all'incirca un decimo rispetto a 30 anni fa. Trent’anni anni fa un libro che faceva 30 mila copie andava benino. Oggi se il tuo libro fa 30 mila copie ti stendono i tappeti».

 

Lei è editor. Non tocca a gente come lei scommettere su libri più sorprendenti?

«E questo è il problema: che si lavora con due dimensioni di tempo diverse. Gli autori hanno bisogno di anni, l’editoria no. Oggi se un libro non vende nei primi tre mesi lo rendi. Non era così 30 anni fa: è cambiato il tempo, si pubblicano 80 mila nuovi libri all'anno. Però c’è dell’altro: se tu punti tutto su un aspetto commerciale della letteratura, perdi. Non la recuperi più. Se impoverisci il linguaggio, rendi standardizzate le strutture narrative, disabitui il lettore. Quanti successi del passato oggi non venderebbero? Me lo chiedo persino rispetto a “Il nome della rosa”, libro da 580 pagine: sarebbe il bestseller che è stato? Abbiamo diminuito la qualità ma non per cinismo o per calcolo: perché il mondo sta andando in questo modo. E sta diventando esponenziale perché la gente ha sempre più difficoltà a capire. Già Tullio De Mauro aveva parlato dell’analfabetismo sommerso degli italiani: leggere senza capire. In più, rispetto ai lettori di lingua inglese o francese abbiamo una lingua tecnicamente sincronica e non diacronica. Ovvero, noi leggiamo, in traduzione, sempre una lingua di oggi. Mentre un inglese è abituato a leggere James, Shakespeare, Virginia Woolf, un inglese diversissimo, noi abbiamo familiarità con un italiano che è sempre quello corrente. Oggi leggere “Gli indifferenti” di Moravia, non dico Svevo o Manzoni, è diventato difficilissimo perché quella lingua, l’emblema di modernità letteraria, è faticosa».

 

La lezione che il suo protagonista le dà non è ideologica. “Il suo canone era nel linguaggio. E ci tenne lontani dai conformismi e dalle retoriche”. Anche l’attenzione al linguaggio si va perdendo.

«Si va perdendo perché stiamo esasperando l'idea che valga quello che si racconta e non come lo racconti».

 

Melania Mazzucco passando in rassegna gli 81 libri presentati dagli Amici della domenica allo Strega, ha detto: «L’italiano? È funzionale, televisivo, parlato». Non a caso quando un romanzo ha una scrittura più raffinata lo apprezzi come valore in sé.

«Ed è sbagliato. La scrittura elegante non esiste. Esiste una scrittura che si adatta perfettamente a quello che stai raccontando. Glielo dimostro con un esempio. Prendiamo tre scrittori del Novecento su cui tutti non hanno dubbi: Garcia Marquez, Hemingway, Proust. Diversissimi. Però tutti e tre – “Cent’anni di solitudine”, “Festa mobile” e “La Recherche”- sono libri sul cui valore non discutiamo. Ognuno ha un sistema di scrittura diverso. Ma perché funziona Marquez? Perché Macondo non può che raccontarsi in quel modo. Pensi Thomas Bernard: quando vai in una scuola di scrittura, la prima cosa che ti dicono è non fare ripetizioni. Bernard usa la ripetizione in maniera ossessiva».

 

Ecco un colpevole: le scuole di scrittura?

«Aver inventato i corsi di scrittura creativa è stato un disastro. Da editor ritengo che l'autore vada sempre rispettato, ma riconosco che molti entrano nei libri a gamba tesa »

 

Sta descrivendo una realtà editoriale che predilige il prevedibile.

«Dipende dal sistema che si è venuto a creare. Chi stabiliva fino a 40 anni fa quali erano gli scrittori da leggere? La società letteraria. Oggi lo Strega è ancora l’ultimo contesto che può compiere operazioni di rilancio autorevole, nessun altro. Perché i libri premi Strega, senza fare nomi, possono passare da 8000 copie vendute prima della vittoria a 140-150 mila: l’effetto moltiplicatore è enorme. Anche il Campiello ha un po’ questo effetto. I giornali invece l’hanno perso. Ma se Gadda non vendeva, se Manganelli vendeva 2400 copie, Alberto Arbasino 6000, nessuno ha mai dedotto che non valessero. Oggi invece c’è una relazione diretta tra vendita e valore».

 

Non c’è sistema letterario. Non ci sono i maestri. Dove cerchiamo l’autorevolezza, quella di gente come il suo professore?

«Tra i non famosi. I famosi sono troppo concentrati su se stessi. Penso che si trovi un sacco di gente brava in provincia, nelle scuole, gente che ha letto tutto, che non parla a vanvera. E può formare delle persone».

 

“La nebbia e il fuoco” è un libro sulla missione dell'insegnamento?

«Sulla sacralità dell’insegnare. Sull’idea del silenzio e della misura, sulla capacità di non parlare e non dire. Aldo non ha bisogno di esibirsi. Ha passato un’intera vita facendo quello che doveva fare, come molti».

 

Eppure non era un uomo comune. Come reagirebbe davanti a questo libro?

«Credo che sarebbe stupito del fatto che per l'ennesima volta io abbia fatto una cosa fuori canone: ho raccontato solo ciò che ho visto, senza voler sapere di più, nemmeno oggi».

 

Un riserbo che le arriva dalla sua città. “Nessuno si fida e si affida se viene da Alessandria”, un luogo da cui non ci si salva. È impietoso con questa città di nebbia.

«In realtà, chi ha letto il libro mi ha confessato di aver avuto voglia di andare ad Alessandria, probabilmente sono riuscito a raccontare un'antiretorica che colpisce, in tempi di marketing e propaganda. Io vengo da una terra che la Resistenza ce l'ha proprio insita: pensi a Fenoglio, Pavese, il primo Calvino. I partigiani qui non lo erano per una scelta spavalda, ma per l’effetto di un tempo in cui, come dice Joyce, “la vita ti chiama ad alta voce”, non hai scelta: quei ragazzi, appena diciottenni, avrebbero voluto fare altro. A un certo punto invece hanno dovuto imbracciare un fucile e andare sulle montagne perché dall'altra parte c'era una cosa che si chiamava nazifascismo contro cui combattere. Quanti non sono tornati? Tantissimi. Quanti volevano andare? Nessuno. Alessandria è la città dove sono nato e che mi ha insegnato la riservatezza. Dove non ti viene concesso niente. Mi ha dato una grande passione per l’essenzialità. Anche se poi ogni tanto vorresti non tenere tutto così sotto controllo».

 

Schivo era anche Umberto Eco, nato ad Alessandria. Lei è stato per molti anni caporedattore delle pagine culturali de L’Espresso, il giornale di Eco. Mi racconta del vostro rapporto?

«Di grande confidenza ma anche di discrezione. Una volta che mi accennò a un piccolo intervento. Io per pudore non gli chiesi di più. Poi mi rimproverò di questo. “L’ho fatto per timidezza”, gli dissi. Per lui era stata disattenzione. Ma io sono stato educato in questo mondo. Cominciò tutto con un’intervista. Era il 1981, “Il nome della rosa” era uscito da poco. Gli chiedo un’intervista per un giornale di Alessandria. Emozionato, mi presento avendo letto tutto di lui. A un certo punto gli faccio una domanda terrificante: "Senta, professore, ma lei come ha fatto a scrivere un saggio su Joyce se non sapeva l'inglese?". Lui mi guarda e dice: “Parto dal presupposto che Finnegans Wake non sia scritto in inglese”. Oggi saresti cacciato da qualunque giornale con una domanda così. Invece, lui finisce l'intervista e va a chiedere informazioni su di me. Negli anni me l’ha ricordato, ridendo, un sacco di volte. Dopo due anni, lui era celeberrimo, io chiamo l'Europeo e propongo quell’intervista. Comincio a collaborare, e l’anno dopo mi faccio avanti con la mitica redazione de L’Espresso in via Po 12. Da lì comincia un rapporto lungo molti anni».

 

“La nebbia e il fuoco” è un libro sulla misura, sul silenzio, sul rigore. Su un tempo che non può tornare. Sulla nostalgia?

«È un libro sul distinguere tra l’importanza di quello che fai e l’importanza di quello che sei. Bisognerebbe tornare all'importanza di quello che fai. Senza cadere nella tentazione della performance e della seduzione».

 

E in letteratura? C’è un modo per non compiacere il mercato?

«Hanno tutti paura che si spenga la luce e non ti veda più nessuno, mentre è nel buio e nell'ombra che si lavora davvero. Oggi, ad esempio, conta moltissimo il corpo dell’autore: lo scrittore deve andare ai festival, prendere posizione, palesarsi di continuo. Ma se li immagina Gadda o Montale, terrorizzati dalle folle, a un festival? C’è una generazione di scrittori che sarebbe stata totalmente inadeguata a mostrarsi in pubblico. Umberto Eco diceva che quando l'autore pubblica un libro dovrebbe togliersi di mezzo per non disturbare il cammino del testo. E io la penso esattamente così. Si può parlare di altro anziché parlare sempre di sé».

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