Aggrediti, cacciati di casa, sottoposti a terapie riparative. Per il loro orientamento sessuale. L’omotransfobia non si ferma. Ma per il nostro Paese il reato non esiste

Il 17 maggio 1990 è stata una giornata di svolta nella storia della civiltà. Da allora chi dice ad una persona omosessuale che è malata di mente non pronuncia solo una falsità, ma un’offesa. L’Organizzazione mondiale della Sanità, cioè l’organismo a cui la comunità internazionale affida il compito di stabilire le conoscenze cardine sulla salute della popolazione planetaria, ha depennato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Vietato da allora, lo dice la scienza, accreditare patenti di salute mentale o di follia alle persone Lgbt per il loro orientamento sessuale. Eppure, ad oggi, il fenomeno dell’omotransfobia in Italia dilaga anche se non lo vediamo. Nel Paese c’è un mondo sommerso, ostinato, innominabile e ancora vivo che ha dichiarato guerra alle persone Lgbt: le aggredisce, le mette ai margini, le vuole “riparare”.

 

Vedere tutto questo sotto la luce del sole sembra impossibile, l’Italia non raccoglie i dati del fenomeno: i soggetti della giustizia non registrano le finalità di odio omotransfobico perché non le riconoscono o perché il dato non rientra tra quelli da registrare sulla base della legislazione vigente. Non c’è il reato, non c’è un tracciamento. Il ddl Zan affossato dal Senato nel mese di ottobre, oltre a istituire il reato di omotransfobia, prevedeva all’articolo 9 una «rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione in relazione alla discriminazione e alla violenza omotransfobica». Niente da fare. Cresce la disillusione tra le vittime, si denuncia poco nella consapevolezza della mancanza di una legge che tuteli.

 

Possiamo avere una panoramica dell’odio verso la comunità arcobaleno sommando i dati che arrivano dalle associazioni, dai servizi che supportano le vittime, dai media e dal Rapporto annuale sui crimini d’odio dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Il numero che racconta l’anno trascorso segna 148 aggressioni, dal primo maggio 2021 al 30 aprile 2022. A queste vanno aggiunti gli ospiti delle “Case Rifugio” per persone Lgbtq+ di Torino, Milano, Roma, Napoli. Un centinaio di giovani buttati fuori casa per il proprio orientamento sessuale o identità di genere e di adulti che dopo aver tanto subito cercano di ricostruirsi una vita.

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«Non denuncerò», racconta S. 40 anni, un filo di voce e la testa bassa. Tre aggressioni in due giorni. L’ultima poteva essere fatale, spiegano le forze dell’ordine. L’aggressore era armato di scure. «È stato mio fratello. Si è gettato su di me e poi contro il mio compagno. Stiamo insieme da 20 anni. Dopo la morte di mia madre siamo andati a vivere insieme. Una scelta inaccettabile per la mia famiglia. Così mio fratello si è presentato con l’ascia per colpire. Ma ero già in casa con i carabinieri quel giorno. Adesso lui sarà denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. Io non farò nulla. Come fai a denunciare tuo fratello?». S. ha gli occhi pieni di lacrime e cerca di trattenere la piena di un dolore che non si placa. «Ricostruiremo lontano da qui. Siamo adulti, ce la faremo».

 

Sono i più giovani a dover affrontare un inferno di violenze, mancanze, vuoti. Nessuno vuole parlarne apertamente, pochi scelgono di raccontare un altro abisso del fenomeno dell’omotransfobia: le terapie riparative. L’Italia vive infatti un gran rispolvero di tecniche “psicologiche” che sostengono con argomenti pseudoscientifici che si può “tornare eterosessuali”. Sul lettino dello psichiatra si traducono pregiudizi popolari e nel vano tentativo di modificare l’orientamento sessuale alimentano il disprezzo del paziente verso sé stesso, colpendo al cuore la democrazia degli affetti. Sono la versione agguerrita del ritornello che una persona si sente dire subito dopo il coming out: “«Forse la tua è una fase».

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In una discesa vertiginosa al centro delle proprie paure e dei legami fra genitori e figli, emergono i racconti di chi ha superato questo inferno.

Giacomo ha lo sguardo dolce e un ciondolo raffigurante la sua Sicilia con i suoi colori giallo e rosso: «Ho fatto coming out a 16 anni con i miei, subito dopo essermi trasferito a Roma da Palermo. Non vivevo la scoperta del mio orientamento con disagio ma con curiosità. Però mia madre ha deciso di portarmi da una psicologa qui, a Roma, e lì è iniziato tutto». Siamo nel 2018. «Non ci vedevo nulla di male nell’andare da una psicologa per parlare con qualcuno. Ma lei era strana. La prima cosa che disse era che l’omosessualità non esisteva. Era una difficoltà superabile. Non ero d’accordo ma seduta dopo seduta ha scavato dentro di me questa scissione fra l’essere e il voler essere. Io volevo essere amato dalla mia famiglia. Ricordo una frase: “Tu non sei omosessuale, puoi cambiare. Da adesso in poi devi sforzarti”. Mi dava dei compiti: i capelli dovevano essere sempre cortissimi, dovevo stare sempre in compagnia dei ragazzi e poi dovevo guardare le ragazze. Avrei dovuto contrastare i miei pensieri omosessuali guardando le ragazze nella vita di tutti i giorni e fare pensieri su di loro. Andai avanti così per un anno. Ho pensato più volte al suicidio. Mia madre era contenta però. Poi in estate tornai a Palermo e mi innamorai follemente di quello che è ancora oggi il mio compagno. Studia medicina e si vuole specializzare in psichiatria. Mi ha salvato».

 

Fabrizia ha 24 anni, nel 2018 si rivolge a una psicologa del centro di salute mentale dell’Asl di Salerno per problemi «che non riguardavano il mio orientamento sessuale», specifica: «Durante la prima seduta, le parlai della mia vita ed ovviamente anche di quella sentimentale. Quando le dissi che sono lesbica, rispose che era un po’ estremo definirsi così. Mi chiese cosa mi piacesse nelle donne, risposi che in genere mi piacciono le ragazze determinate ed espansive. L’analisi fu rapida: secondo lei mi piacevano questo tipo di ragazze perché in realtà ambivo a stare con un uomo, essendo queste tipiche caratteristiche maschili. Inoltre disse che avevo un aspetto troppo femminile e che in genere le lesbiche vere sono uomini mancati, con i capelli corti e un atteggiamento più rozzo e mascolino. Stavo male all’epoca, avevo bisogno di una psicologa così continuai per qualche seduta. Un giorno mi disse che pensavo di essere lesbica per via del mio difficile rapporto con mio padre e che io mi sono quindi autoconvinta di questo fin dall’infanzia. Mio padre è semplicemente omofobo. Smisi di andarci e questo mi mise così tanto a disagio che per un po’ provai sfiducia nei confronti degli psicologi ed evitai quindi di farmi curare».

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