«Noi, schedati solo perché neri»: la profilazione razziale è una violenza silente, anche in Italia

Prendere di mira persone in base all’etnia senza validi motivi: una pratica di polizia subdola e difficile da dimostrare. Anche perché mancano dati sulla sua diffusione, gli strumenti legislativi per arginarla e il dibattito pubblico sul tema quasi non esiste

«Condanniamo fermamente la profilazione razziale e le molestie subite dai nostri colleghi nel campus». Si apre così la lettera aperta scritta il 4 maggio 2023 da un gruppo di dottorandi dello European University Institute di Fiesole, polo accademico d’eccellenza finanziato dall’Unione europea che ogni anno ospita circa 600 ricercatori provenienti da oltre 60 Paesi.

 

A inizio maggio, appunto, alcuni ricercatori arrivati in Italia con una borsa di studio spagnola avevano deciso di denunciare la disparità di retribuzione esistente nell’istituto e di sottoporre un report completo della situazione alla vicepremier spagnola Nadia Calviño, che in quei giorni si sarebbe dovuta trovare a Fiesole come speaker di una conferenza annuale organizzata dall’Eui. Ma la presenza di Calviño era saltata all’ultimo minuto, sostituita da un intervento registrato, e i dottorandi avevano dovuto accontentarsi di affiggere il report alle pareti del campus.

 

Fin qui tutto regolare. Se non fosse che l’azione ha attirato l’attenzione di alcuni agenti della Digos presenti in borghese all’evento, che hanno fermato e identificato sei persone. A finire nel mirino dei poliziotti è stata in particolare una ricercatrice che preferisce mantenere l’anonimato e che, raggiunta da L’Espresso, ha raccontato di aver fornito agli agenti il badge identificativo dell’università (un documento ufficiale rilasciato dall’Ue) senza che ciò servisse a placare la manifesta ostilità nei suoi confronti. Le forze dell’ordine hanno infatti intimato alla donna di mostrare la sua carta d’identità, l’hanno scortata fino alla postazione di lavoro dove teneva il documento e la situazione è tornata alla normalità solo dopo la verifica dei documenti. Quando un agente ha fatto sapere ai suoi colleghi che «sì, purtroppo lei lavora qui». Piccolo particolare: la ricercatrice era anche l’unica persona non bianca presente nella stanza.

 

È ciò che tecnicamente si definisce profilazione etnica o razziale, una pratica di polizia che consiste nel prendere di mira individui o gruppi specifici di persone in base alle loro caratteristiche e senza un giustificato motivo. Non solo le manganellate del caso di Milano dei giorni scorsi, quindi. Qui si tratta di una forma di discriminazione particolarmente subdola, perché di rado si presenta sotto forma di violenza esplicita, ma si presenta nella maggior parte dei casi come una prevaricazione invisibile e difficile da denunciare.

 

«Non è la prima volta che mi capita», ha spiegato la ricercatrice a L’Espresso, «ma ci sarà sempre qualcuno che metterà in dubbio che si sia trattato di profilazione razziale e di una discriminazione basata sulla mia provenienza e sul colore della mia pelle». Dello stesso avviso è anche l’avvocato Gilberto Pagani, difensore di alcune persone che hanno provato a denunciare simili abusi: «Dai dati di esperienza risulta che questo fenomeno esiste, ma è molto difficile dimostrarlo». Poiché tutto si fonda sulle testimonianze personali delle vittime. Secondo l’avvocato, la legge italiana non mette a disposizione strumenti adeguati per fronteggiare il fenomeno, che ritiene un problema strutturale delle forze di polizia.

 

Oltre agli strumenti legislativi, però, a mancare in Italia è anche e soprattutto un dibattito pubblico sul tema. A riempire questo vuoto, da qualche mese, ci pensa un gruppo di ragazzi e ragazze ferraresi che, in collaborazione con la Goldsmiths University di Londra, ha creato il progetto Yaya con l’obiettivo di dare voce direttamente alle vittime. «Molte persone con cui abbiamo parlato riconoscevano l’ingiustizia di essere fermate senza un motivo, ma non sapevano che avesse un nome. E questo è un problema», ha detto a L’Espresso il coordinatore italiano del progetto Shahzeb Mohammad. L’altro problema è l’assoluta mancanza di dati per descrivere il fenomeno, ragione che ha portato alla creazione del sito web del progetto: un enorme database di testimonianze dirette, che raccontano una storia di soprusi troppo spesso normalizzati.

 

E se i dati forniti direttamente dal ministero dell’Interno britannico (l’altra nazione interessata dal progetto) parlano di una probabilità nove volte maggiore per le persone nere di essere fermate dalla polizia, nel contesto italiano tutto è lasciato alla percezione delle vittime. Secondo un sondaggio realizzato nel 2021 dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, il 71 per cento della popolazione immigrata o afrodiscendente in Italia ritiene di aver subito un trattamento irriguardoso dalle forze di polizia; una forma d’abuso che tra gli intervistati bianchi scende al 14 per cento. Un divario di esperienze enorme che, tuttavia, non può essere supportato da alcun numero ufficiale.

 

Un problema nel problema, perché ciò significa che l’intero discorso pubblico sulla profilazione razziale dipende dalle voci delle persone direttamente interessate, sottorappresentate nei media e molto spesso private di diritti fondamentali. Come testimonia l’esperienza dello stesso Mohammad, 25 anni, arrivato in Italia quando ne aveva 13, eppure ancora privo di cittadinanza. Oggi si batte per dare voce a storie come la sua, come quelle della ricercatrice di Fiesole o di milioni di persone che ogni giorno subiscono questa violenza silenziosa. Storie che si somigliano, perché sono prodotte dallo stesso sistema di potere, e che a oggi rappresentano l’unico strumento per comprendere la reale portata del fenomeno.

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