Apre il festival di Torino con "Sufragette". Sta finendo un film tragicomico per Frears. Ed è pronta a presiedere la giuria di Berlino. Incontro con l'attrice americana. Brillante e battagliera come sempre

Che Meryl Streep sia l’attrice contemporanea più creativa e versatile, è vero da vent’anni. Del suo talento si è scritto e detto di tutto. Semmai la cosa che sorprende ancora oggi, al di là della magia che ogni volta ci regalano le sue interpretazioni, è la tenacia con cui l’attrice continua ad affrontare le sfide più diverse, e a vincerle tutte, immancabilmente, su ogni set.

L’ultima che ha accettato è anche una prima, per lei: presiedere la giuria di un festival internazionale. Meryl Louise Streep, 66 anni, sarà infatti la Presidente della Giuria del 66° Festival del Cinema di Berlino (dall’11 al 21 febbraio 2016).

Appare incredibile che nessun festival l’abbia mai chiamata prima. «In effetti ho fatto più di 40 film, e da tempo desideravo lavorare in una giuria internazionale», commenta. «Ma ora che il progetto è arrivato sono terribilmente emozionata».

Emozionata? Lei? Di film Meryl Streep dal 1977 in realtà non ne ha fatti 40, ma 65, comprendendo anche i cartoon ai quali ha prestato solo la voce. A questi si devono aggiungere due nuove pellicole, una in uscita in questi giorni nel Regno Unito e Stati Uniti e in arrivo anche in Italia come film d’apertura del Torino Film Festival (20- 28 novembre).

In “Suffragette”, diretto da Sarah Gavron, la Streep indossa i panni di Emmeline Pankhurts, l’attivista e politica britannica che guidò il movimento per il voto alle donne del Regno Unito. È in lavorazione a Londra, invece, “Florence Foster Jenkins”, un dramma biografico diretto da Stephen Frears nel quale la Streep interpreta la cantante d’opera ed ereditiera newyorkese diventata famosa per la sua totale mancanza di doti canore.

Al cinema si aggiungono poi 17 film per la tv e 13 pièce messe in scena in trent’anni sui palchi dei teatri più importanti. Come può emozionarla la presidenza di una giuria seppure prestigiosa come quella di Berlino? «Sono sorpresa anche io. Non sono intimidita, ma non sto nella pelle. Giudicare opere cinematografiche d’eccellenza? La responsabilità di una giuria non è solo nei confronti del pubblico, ma dell’arte tout court. Spero di essere all’altezza delle giurie che ci hanno preceduto».

[[ge:espressogallery:eol2:1288995:1.59332:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2007/11/14/galleria/meryl-streep-i-mille-volti-di-hollywood-1.59332]]L’ultimo premio alla carriera l’attrice lo ha ricevuto proprio a Berlino, tre anni fa: un Orso D’Oro per i suoi contributi al cinema. Ovvio che abbia un rapporto particolare con questo Festival.

«La Berlinale è un momento molto importante per tutti coloro che lavorano in quest’industria e per quest’arte. È un festival ricco di tutti i cinema del mondo, di contributi in arrivo da ogni dove. Un festival dove ad essere protagonisti sono i film, non le star. Mi pare che l’anno scorso siano state presentate 400 pellicole in diverse sezioni. È il più grande festival di pubblico al mondo. Un appuntamento essenziale per il cinema mondiale».

Cinema che l’attrice ha contribuito ad influenzare come nessun’altra. È difficile tenere il conto esatto dei premi vinti, o per i quali è stata solo nominata. Solo all’Oscar è stata candidata diciannove volte - sempre per ruoli da protagonista - e ne ha vinti tre. Ha vinto otto Golden Globe, l’anticamera degli Oscar, e ne ha sfiorati ventuno con una candidatura.

Meryl Streep il cinema ha cominciato a plasmarlo con il suo volto espressionista dalla fine degli anni settanta. Con la serie tv “Holocaust” che sconvolse il mondo (1978) e il capolavoro di Michael Cimino “Il Cacciatore”, che è anche la sua prima nomination alla statuetta (1978), vinta poi un anno dopo con il dramma sul divorzio “Kramer contro Kramer”.

Tre anni dopo un altro Oscar con la scioccante interpretazione di “La Scelta di Sophie”, altro dramma sul nazismo. Con Woody Allen Streep scopre le tinte romantiche nell’indimenticabile “Manhattan” (1979), così come quelle esotiche nell’epico adattamento del romanzo di Karen Blixen firmato Sidney Pollack “La Mia Africa” (1985). Con “She-Devil-Lei il Diavolo” (1989) l’attrice sperimenta per la prima volta il perimetro della commedia.

E più passano gli anni, più ricco e variegato diventa il suo tableaux espressivo. Nell’adattamento cinematografico di Michal Cunningam “The Hours” (2002) di Stephen Daldry a fianco di Nicole Kidman e Julianne Moore, la Streep torna a elettrizzare con un ruolo di grande intensità drammatica. Ma dopo soli tre anni e tre film, rimescola ancora una volta le carte e conquista il mondo con la satira iconica di “Il Diavolo veste Prada”. Lo zenit della poliedricità lo raggiunge nel 2008 con il successo del musical “Mamma Mia” sulle note degli Abba. Dopo tre decadi il mondo scopre che Mery Streep è anche un’eccellente ballerina e vocalist. Tre anni dopo arriva il terzo Oscar per la sua magnifica Margaret Thatcher in “The Iron Lady”.

Dopo l’ennesima nomination alla statuetta l’anno scorso per “I Segreti di Osage County”, Mery Streep è ritornata alla musica con l’ottimo “Dove Eravamo Rimasti” di Jonathan Demme, tratto da una sceneggiatura dell’autrice premio Oscar Diablo Cody: è una rockstar che molla la celebrità per recuperare la sua famiglia.

Ancora una trasformazione fisica, e artistica, à la Streep. «Sono felice dell’ottimo successo del bel film di Jonathan. Ma non capisco il tanto rumore per la mia interpretazione. Solo perché indosso gli stivali e suono una chitarra elettrica? Un ruolo così sarebbe normale nella carriera di qualunque attore uomo. Perché non dovrebbe esserlo in quella di una donna? Un’attrice alla mia età non è una statua di cera. Io poi sono ossessionata dalla chitarra elettrica da quando avevo dieci anni. C’è ancora così tanta strada da fare in questo mestiere per noi donne...».

Meryl Streep e Hollywood: il rapporto è complesso. Al centro propulsore dell’intrattenimento e cultura made in Usa l’attrice deve tutto. Ma ne è anche una delle critiche più implacabili. Anche perché non ha mai accettato di sacrificare sull’altare della celebrità la sua vita privata. Anche nel corso di questa intervista berlinese, l’unico momento di imbarazzo è quando gli viene chiesta conferma di una notizia data per certa dai giornali americani: davvero ha comprato una casa in Salento, vicino all’amica Helen Mirren? «Non mancheranno occasioni di andare a trivare la mia collega e amica Helen nell’orto della sua bella casa in Italia», ha risposto seccamente.

L’ultimo episodio del braccio di ferro tra Meryl Streep e Hollywood risale alla notte degli Oscar 2015. Quella notte, con la statuetta in mano appena ricevuta per il toccante “Boyhood”, l’attrice americana Patricia Arquette ha scandito nel microfono che è vergognosa la differenza di trattamento che Hollywood riserva alle donne. E che è l’ora per l’America, dopo le grandi battaglie per i diritti di neri e gay, di pensare alla parità dei sessi.

Meryl Streep è stata la prima ad alzarsi e ad applaudirla con passione. «Le donne hanno pagato per decenni una tassa “di genere”», conferma ora. «Non parlo solo di cachet più bassi e condizioni contrattuali e di lavoro svantaggiose nell’industria in cui mi ritrovo a lavorare: parlo di tutte le donne d’America. È iniziata una battaglia per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Io ci sarò. La parità di salari, in tutti i lavori, e anche a Hollywood, è una conquista per tutte le donne e i loro figli».

“Suffragette”, dunque, arriva al momento giusto. Le suffragette erano le appartenenti al primo movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto per le donne. Un film femminista? «Le suffragette hanno lottato per il riconoscimento della piena dignità delle donne. Quindi sono state delle protofemministe. Sul piano economico e sociale il benessere nato con l’industrializzazione aveva cambiato radicalmente la vita delle donne. I diritti però il mondo dei maschi se li era dimenticati. Emmeline Pankhurts, la donna che interpreto, fondò il Women’s Social and Political Union con il preciso intento di far ottenere alle donne il dritto di voto. Concesso poi nel 1918. Un anno prima istituì, assieme alla madre, il Women’s Party, il cui programma includeva la parità di salario fra uomini e donne che svolgevano lo stesso lavoro e, tra le altre cose, un sistema di assistenza alla maternità. Più che una femminista, un’eroina». “Suffragette” è anche  il primo film della storia ad essere stato girato all’interno del Palazzo di Westminster, sede del Parlamento del Regno Unito.

Altro progetto, altra trasformazione: di Florence Foster Jenkins l’attrice rivela: «Il film racconta la vera storia di una donna tragicomica. La voce che Florence Jenkins sentiva nella sua testa era bellissima. Per il resto del mondo, invece, era soltanto una voce senza senso del ritmo, né qualità. Suo marito e manager St. Clair Bayfield (nel film è interpretato da Hugh Grant) ha speso anni a proteggere la sua amata dalla verità. Ma quando Florence decide di dare un concerto pubblico al Carnegie Hall, nel 1944, St. Clair sa che dovrà affrontare la sfida più grande per sé e per il suo matrimonio». Per realizzare  gli esterni intere parti del centro di Liverpool sono state trasformate nella New York di inizio secolo. «Un personaggio tenace, poetico, tragico e folle. Per interpretarlo mi sono ispirata a un musa i particolare: Anna Magnani».

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