È un pezzo importante di storia della musica, più che un’autobiografia, il libro “Nove vite e dieci blues” (Bompiani), di Mauro Pagani. Anche un tentativo di sprovincializzarla.
«Inizio a fare musica seguendo il blues e il primo rock americano, che nasce con la fine della guerra in Corea. La prima che gli Usa avevano perso. I soldati, soprattutto delle aree povere, venivano trattati male al loro ritorno. I giovani che avevano rischiato tutto senza avere nulla in cambio, reagirono: pretesero “tutto e subito”. La parte più conservatrice del Paese, che amava il country e detestava il rock perché nero, lanciò una campagna contro il movimento giovanile...».
Musicalmente l’America è ancora un punto di riferimento?
«Sì. Io ho sempre avuto passione per il blues che ci ha insegnato a improvvisare, a essere creativi, ad avere un rapporto personale con la musica. Nessuno ci insegnava il blues o il rock. Li imparavamo dai dischi. Con il blues abbiamo imparato a suonare con gli altri, ad ascoltare e interpretare. La musica classica lo consente poco».
Alcuni vanno alla ricerca di altre tradizioni musicali.
«Sì, ma attenti. BB King diceva che il blues è la musica più facile da imparare, ma anche la più difficile da suonare. Il concetto vero di improvvisazione è “composizione momentanea. Anche il libero linguaggio ha bisogno di pratica e di ascolto».
È sempre stato aperto alle musiche del mondo.
«Sì, però sono figlio di una storia italiana. Negli anni ’70, tra i migliori per la musica, nasceva il progressive, genere che ci ha permesso di essere ascoltati con rispetto in tutto il mondo. C’erano la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Giovanna Marini, i Dischi del Sole, Lomax. Molti venivano a lavorare in Italia per raccogliere materiale. E poi gli Area, il Canzoniere del Lazio e di Napoli Centrale. Tutti bravi musicisti attenti alla cultura popolare. Molti definiscono Creuza de mä, uscito nell’84, il primo disco italiano di musica del mondo. Non è vero, l’Italia era avanti, sul mercato erano già usciti dischi di world music. Peter Gabriel fondò la Real World nel 1988».
A parte la musica, ha avuto sempre a cuore la libertà.
«Mi sono iscritto in Statale nel 1964 vivendone tutte le contraddizioni degli anni a seguire. Ero e sono un uomo di sinistra».
Nel libro racconta l’esperienza di insegnante di musica nel centro sociale occupato di S.Marta a Milano.
«Quando ho cominciato pensavo solo a fare il musicista. Poi ho trovato quattro bravi musicisti (la PFM), e dopo il primo disco finimmo primi in classifica: mi cambiò la vita. Ho imparato a suonare nei dancing e night club con musicisti di cultura jazz di una generazione più anziana. Sono stato fortunato, per questo sento di restituire qualcosa».
Cosa vede d’interessante nella musica d’oggi?
«C’è tanta bella musica, ma si fa fatica a trovarla. Escono duemila dischi a settimana: come si fa a starle dietro? A volte sembra difficile capire la musica di oggi. Ma anche noi facevamo musica che i nostri genitori non capivano».
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