
PETROLIO E SANZIONI
La crisi dell'economia russa, fino a poche settimane fa negata dal Cremlino, ora è un fatto conclamato. La stessa Banca centrale di Mosca, che a fine novembre prevedeva una crescita del prodotto interno lordo nel 2015 dell'1,2 per cento, lunedì si è corretta: l'anno prossimo – ha fatto sapere – il Pil calerà del 4,5 per cento se le condizioni resteranno quelle attuali. È un cambio di rotta improvviso per un Paese che negli ultimi quindici anni, fatta eccezione per il 2009, ha registrato tassi di crescita continui, spesso superiori al 5 per cento.
La recessione ha due cause scatenanti. La prima, in ordine di tempo, è rappresentata dalle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti ed Unione europea a partire da marzo di quest'anno. Decisioni prese in risposta a quello che l'Occidente ha più volte ribattezzato come “un'illegittima aggressione” della Russia nei confronti dell'Ucraina. In pratica, dopo l'annessione della Crimea e la guerra nel Donbass (la regione orientale dell'Ucraina dove si combatte da mesi), Washington e Bruxelles hanno vietato ad alcune delle principali società russe, fra cui banche e compagnie energetiche, di finanziarsi sui mercati occidentali. E hanno pure dichiarato illegale l'esportazione di tecnologia in Russia, decisione che ha di fatto bloccato parecchi progetti per lo sfruttamento di gas e petrolio (ieri l'Ue ha annunciato questa decisione anche per la Crimea).
La seconda causa della crisi economica è il petrolio, il cui valore negli ultimi mesi è sceso in picchiata, aprendo una voragine nei conti di Mosca. La spesa pubblica della Federazione dipende infatti per la metà proprio dalle entrate derivate dalla vendita di idrocarburi. E poiché il prezzo del Brent (la qualità di greggio più scambiata sui mercati internazionali) è passato dai 112 dollari al barile di luglio ai circa 60 di questi giorni, si capisce in che situazione si ritrovi Putin.
LO SPETTRO DEL DEFAULT
Il crollo del greggio ha scatenato a cascata quello del rublo. La caduta è stata inesorabile. Dall'inizio dell'anno la moneta nazionale ha perso oltre il 50 per cento rispetto al dollaro americano. Livelli così non si vedevano da 16 anni. Era il 1998, al governo della Federazione c'era Boris Eltsin e il “Corvo bianco” fu costretto a dichiarasi incapace di ripagare i propri debiti. «Non credo che questa volta sarà lo stesso», dice al telefono da Mosca Dmitry Dolgin, economista di Alfa Bank: «A differenza di 16 anni fa, oggi la Russia ha dati di bilancio molto migliori. Il debito pubblico estero oggi è meno del 3 per cento del Pil, mentre nel '98 era il 50 per cento. E poi la Banca centrale ha riserve in moneta straniera per 400 miliardi. Il problema oggi non sono i debiti, ma recessione e inflazione».
Anche Chris Weafer, analista di Macro Advisory, che vive in Russia da 15 anni, sostiene che il grattacapo numero uno di Putin non sia il debito estero ma l'economia interna. «Il colpo più duro», scrive Weafer nel suo ultimo report, «verrà dall'impennata dei tassi d'interesse». Il ragionamento è semplice. Siccome prendere in prestito soldi costerà di più, i consumi diminuiranno. A ciò si aggiunge la caduta del rublo, che renderà più costoso acquistare merce d'importazione. Risultato? Recessione pesante.
Solo che nel frattempo il costo della vita schizzerà verso l'alto. «Molto probabilmente l'inflazione arriverà al 13-15 per cento in primavera», scrive Weafer, «con i prezzi del cibo che già quest'inverno faranno registrare aumenti del 25-30 per cento». Se le cose andranno davvero così, per il governo le cose si mettono male. La disoccupazione aumenterà, e gli stipendi di chi continuerà a lavorare resteranno al palo mentre le spese aumenteranno. Non facile per Putin mantenere il consenso della popolazione, che finora lo ha invece sostenuto a grande maggioranza.
GAS E TAGLI NON BASTANO
Le frecce a disposizione dell'arco del presidente non sono molte. Per fermare la caduta del rublo la Banca centrale potrebbe decidere di imporre un controllo sui capitali, così da limitare al massimo la vendita di valuta nazionale. L'ipotesi finora è stata sempre scartata dal Cremlino, ma aumentano gli analisti convinti che alla fine una scelta del genere si rivelerà necessaria. Il controllo dei capitali non servirà però a far risalire il prezzo del petrolio, né a cancellare le sanzioni occidentali. E sono proprio questi i fattori alla base del soffocamento russo.
Putin per ora non ha mai dato segni di cedimento ufficiali sull'Ucraina, e la sua unica grande arma di ricatto, il gas che fornisce all'Europa, è troppo importante anche per lui per potervi rinunciare. Per ora l'unica mossa fatta dall'ex agente del Kgb per assestare l'economia nazionale è stato un taglio del 10 per cento sulla spesa pubblica. Una sforbiciata che dovrebbe permettere al bilancio pubblico di ridurre la dipendenza dal petrolio. Se, fino a quest'anno, per mantenere i livelli di spesa la Russia aveva bisogno che il Brent non scendesse sotto i 100 dollari, con il recente taglio il punto di pareggio dovrebbe attestarsi a 80 dollari. Peccato che il petrolio sia oggi sui 60 dollari. E che, vista la riluttanza dell'Opec a tagliare la produzione, su questi livelli potrebbe restarci ancora per un po'.