Nel discorso della fiducia alla Camera, Meloni disegna la sua parabola. Identitaria e autocelebrativa più che programmatica. Tanto i soldi non ci sono. Finirà come nella serie Boris: «Non lo famo, lo dimo»

La parola chiave è «underdog». Lo sfavorito. Ecco Giorgia Meloni, al suo debutto alla Camera dei deputati. Settanta minuti di discorso, settanta applausi, il nocciolo arriva alla fine. Disegna il suo ruolo con una mitologia che rasenta la mitomania, una parabola attentamente scolpita, apparentemente senza contraddizioni, in realtà abbastanza paradossale se si guarda alla biografia di una donna che certamente ha lottato ma mai è stata sfavorita e anzi lungo i decenni, da giovane aennina a ministra a leader, è stata portata in palmo di mano, sia dal suo partito politico che dalla politica in generale dove si è sempre mossa come un elemento dell'establishment. Una parabola che invece per lei è racchiusa da una parola non autarchica, di lingua inglese, e declinata ancora una volta al maschile.

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Io sono Giorgia, lo sfavorito. «Non sarà una navigazione semplice, «per la gravosità delle sfide», «anche per il pregiudizio politico» «in parte giustificato», «sicuramente per la parte che mi riguarda», dice Meloni alla Camera. Prima donna premier, «provengo da un'area culturale che è stata spesso confinata ai margini della Repubblica, e non sono certo arrivata qui fra le braccia di un contesto familiare e di amicizie influenti». «Rappresento lo sfavorito, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici. Intendo farlo ancora, stravolgere i pronostici». E, poi, rivolta al governo, declina un trittico al limite dell'inquietante: «Non ci arrenderemo, non indietreggeremo, non tradiremo». Un linguaggio persino troppo bellico, per il contesto di alternanza democratica in cui si muove, avendo vinto le elezioni e non una guerra.

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Identitaria e autocelebrativa, Meloni preferisce mettere su questi elementi l'accento più forte al suo discorso. Che è poco programmatico. Pronti, per stare allo slogan elettorale: ma non si sa a che. Come la stessa premier ha modo di sottolineare più volte, d'altra parte, il quadro economico difficilissimo «impedirà di fare subito alcuni provvedimenti che abbiamo in mente». Insomma il governo avrà pochi mezzi, potrà portare a casa pochi provvedimenti, ed è pronto a sintonizzarsi con l'ultimo tormentone della serie Boris (la quarta stagione appena presentata alla festa del cinema di Roma): «Non lo famo, lo dimo».

 

Non si sa se il governo Meloni lo farà. Intanto lo dice. C'è dunque la flat-tax, che chiama «tassa piatta», i cui confini vanno estesi, c'è il blocco navale che nel discorso la premier non chiama blocco navale ma è lo stesso. C'è il sostegno all'Ucraina, l'atlantismo. L'europeismo non «delle elite» ma del motto «uniti nelle diversità». La promessa di non ripetere, in caso di nuova pandemia, il modello restrittivo seguito dal governo Conte sul Covid.

 

C'è naturalmente il presidenzialismo, sul quale Meloni cita il modello francese, dicendosi pronta a dialogare con l'opposizione. C'è l'attacco alla Francia e a chi come il presidente Macron dice di voler «vigilare sull'Italia». C'è un omaggio abbastanza retorico alle donne, alcune di loro famose citate soltanto per nome (Alfonsina, Maria, Oriana, eccetera), una ministra del suo governo, addirittura Elisabetta Casellati. C'è infine un passaggio deciso sul fascismo: «Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso. Esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana».

 

La maggioranza applaude, il gruppo parlamentare di Fratelli d'Italia si spella le mani, il vicepresidente della Camera di Fdi Fabio Rampelli pur rimasto fuori dal governo piange per la commozione. La seduta si chiude con un inneggiare a «Giorgia, Giorgia» che è già il senso di quanto la politica sia già trascolorata nella mitologia personale, anche stavolta.

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