Mondo
2 aprile, 2010

Un famoso fotografo. E dieci viaggi in elicottero sulla terra dove si combatte ininterrottamente da 30 anni. Per scoprire che l'altezza annulla gli effetti e le sensazioni della guerra. Restituisce al Paese il suo fascino indistruttibile. Gli uomini scompaiono. E le uniche compagne sono le maestose aquile

In volo sull'Afghanistan


È stato sorvolando Tora Bora che per la prima volta, nei dieci viaggi sui cieli dell'Afghanistan, ho pensato alla guerra. O meglio: a un uomo. Si chiama Abu Sulayman (nomignolo di battaglia), già guardia del corpo di Osama Bin Laden. L'ho incontrato in Arabia Saudita, al termine del programma di riabilitazione per combattenti fondamentalisti che hanno rinunciato al jihad, e mi ha raccontato la sua storia. Soprattutto la fuga con lo sceicco del terrore su quelle impervie alture, quando maturò il suo addio alle armi. Bin Laden e gli stretti collaboratori equipaggiati, ben nutriti, regali. Lui e gli altri miliziani scalzi, affamati, allo stremo delle forze. Tanto da toccare con mano che non erano poi tanto veri quei paradisi promessi, terreni e ultraterreni, una volta che avessero vinto le armate dell'Islam. Guardando Tora Bora me lo sono finalmente figurato Abu Sulayman, mentre cammina coi piedi doloranti, tra grotte e dirupi, in quella ritirata che gli aedi del capo dipingono coi toni dell'epica. E cammina e impreca, e dentro gli cresce il fiele, e giura a se stesso che lascerà. Lo cattureranno gli americani, finirà a Guantanamo dove starà fino al 2005, prima di riprendersi la vita a Gedda.

Sulayman, una parentesi. Perché lassù, a bordo di un Black Hawk americano, ti puoi scordare degli umani. E quelli che ti vengono in mente sono sepolti sotto la polvere della storia, reminiscenze scolastiche sollecitate per caso. Come quando il pilota col microfono, neanche fosse una guida turistica, ti fa sapere: "Stiamo sorvolando Kunar". Kunar dove un misto di storia e leggenda vuole vivano i discendenti dei soldati di Alessandro Magno, un conquistatore del passato pure stregato da questa cruda bellezza. Kunar, 'landa di infedeli', come la chiamavano perché è stata l'ultima islamizzata a fine '800 e gli abitanti coltivavano l'uva, producevano anche una specie di vino. Kunar, con Nuristan, la porta della terribile Korengal Valley, ribattezzata 'valle della morte' perché lì c'è stato il 60 per cento degli attacchi alle truppe americane che infatti si stanno ritirando. Il pilota si abbassa, adesso, distinguo quei sentieri dove altri hanno camminato prima di me e sono stati presi a fucilate, dove io stesso camminerò tra poco e avrò lo stesso trattamento e cercherò di evitare le pallottole.

Faccio il fotoreporter di guerra. Il mio Afghanistan è esplosioni, carri armati, checkpoint, battaglie, adrenalina da situazione estrema, cadaveri, sudore e terra. Deve essere un personale tentativo inconscio di riconciliazione con un mio mito giovanile se un giorno ho deciso di prendere le distanze dal suolo e salire lassù per vedere quel che resta di una favola. Ci fu un tempo, prima dei trent'anni di guerra, in cui l'Afghanistan era il luogo del sogno, abitato da gente meravigliosa, frequentato dagli hippies, descritto nei libri degli esploratori. Tutto questo era negli anni Settanta prima che precipitasse nell'abisso della guerra civile, l'invasione dell'Unione sovietica, i talebani, l'offensiva americana e la sua coda avvelenata. La favola, adesso posso dirlo, è intatta. La distanza di qualche migliaio di metri è come se fosse un filtro che chiude le ferite. Un cerotto. Il rumore delle pale dell'elicottero, un anestetico che annulla qualsiasi altro suono. Se preferite, la distanza è come un burqa che mette se stessi al riparo dalle brutture del mondo. C'è la rarefazione delle percezioni di cosa succede in basso. Potrei essere un turista. Un pilota dice: "Sembra di essere nel Gran Canyon del Colorado". Un paragone che non so. Non mi dimentico che è l'Afghanistan dove in pochi minuti si va dall'Hindu Kush al deserto. E le suggestioni, aiutate dall'annullamento del tempo, riguardano semmai Marco Polo, le carovane di mercanti. Le similitudini con un altrove qualunque si possono fare con le aree urbanizzate. Le strade sembrano circuiti prestampati e non ne apprezzi la fattura, non capisci con che materiale siano costruite. In questo caso sì, potremmo essere nella Silicon Valley come in una regione remota della Cina. È il concetto di modernità che non trova la sua consistenza. "Ecco Jalalabad". Mi prende il furore dello scatto, come fosse una vendetta professionale. C'ero stato a Jalalabad e non mi era permesso nemmeno uscire per strada, dovevo restarmene rinchiuso. Vietata agli occidentali, soprattutto ai fotografi. Nemmeno quando l'ho attraversata, su un'auto della Croce Rossa, ho potuto lavorare. La vedo, ora, come fosse la prima volta, le strade dritte e ordinate, sembrano tracciate con un righello. Un bel contrasto con le emozioni di quei giorni andati.

Più di tutto può la natura, però. Maestosa e matrigna. Il fatto è che queste genti con la natura matrigna hanno imparato a fare i conti, a convivere, ad amarla anche. Da quassù è chiaro perché gli afgani non perdono mai le guerre: hanno forgiato il carattere in un ambiente molto ostile. Le escursioni termiche sono una variabile ininfluente. Siano sui picchi o nel deserto di pietre procedono senza calze, vagano vagano, alimentando quella durezza che è il loro aspetto distintivo. Una durezza che è parente stretta della fierezza. E della sensazione di invincibilità. Da quassù diventa chiaro anche quello che gli esperti spiegano durante le conferenze quando si soffermano sull'importanza delle tribù, delle etnie. Se abiti in un villaggio di 200 persone, come quello che ci scorre sotto, e attorno c'è il nulla e devi camminare per tre giorni per vedere altri esseri viventi (e ammesso che ci arrivi e non ti fermino i briganti) allora il mezzo limone che ti serve in cucina lo puoi chiedere soltanto al tuo vicino. E con lui c'è la mutua assistenza, lui è le braccia materne, lui l'unico soccorso. Si creano, così, quei legami più indissolubili di qualsiasi politica, di ogni ideologia seppur suggestiva.

Su quegli elicotteri Black Hawk siamo in cinque. Due piloti, due ai mitragliatori, uno a destra, uno a sinistra. Ci possono sparare, ma non ci pensi. È come essersi presi una vacanza dall'inferno del terreno. Fa molto freddo e i movimenti sono limitati dall'attrezzatura obbligatoria, casco, guanti ignifughi. Se sentiamo un rumore assordante, che supera quello delle nostre pale, sono i jet in missione. O hanno già lanciato le loro bombe o lo stanno per fare. È l'unica altra presenza. A parte le aquile. Le ho viste spesso, le ali allargate, scomparire all'orizzonte. Usando solo il corpo possono scappare dalla guerra, loro. Certo anche le aquile possono essere abbattute. Si è spesso tracciata un paragone tra caccia e guerra. Ma quando c'è la guerra non si va a caccia di animali, si hanno altri target. Jet e aquile in un cielo terso sopra una fetta di pianeta che è rimasta se stessa per millenni e si rifiuta di cambiare per le devastazioni che l'uomo gli infligge. I crateri degli ordigni si confondono con le rughe della terra e il tutto si ricuce in armonia. Persino le grotte dei Buddha di Bamiyan, da lontano, non paiono sfregiate dal furore iconoclasta di cui, lo sappiamo, sono state bersaglio.

Ho ripreso l'Afghanistan in volo con l'ansia di catturarlo tutto. Mi manca solo la valle del Panshir dove ci fu un tempo, ieri, in cui si poteva camminare e discutere con la gente. Sarà il prossimo viaggio. Perché, una volta conosciuto, l'Afghanistan è un appuntamento a cui non si rinuncia. Soprattutto se lo si guarda dal punto di vista delle aquile.

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