
Zoran Zaev, il primo ministro socialdemocratico in carica da maggio del 2017, parla ora da un palco sulla strada Kiril i Metodij, a pochi passi da un gigantesco supermercato turco del centro di Skopje, la capitale. La folla lo guarda ammirata, quasi sbalordita: «Za-ev! Za-ev!», gridano euforici. È una giornata di fine estate e le stellette dell’Unione europea dondolano in un vento gentile, sono tese al sole sulle bandiere che sventolano. «La lingua macedone sarà una delle lingue ufficiali di una famiglia con 500 milioni di abitanti», si legge sui manifesti. «Non torneremo indietro. Noi apparteniamo all’Unione europea. Ve lo prometto», ripete Zaev.
Sorride. Alza le braccia in segno di vittoria. Certo, il cammino verso il referendum consultivo del prossimo 30 settembre è inerpicato, ma il primo passo è già stato una conquista: aver raggiunto lo scorso giugno un’intesa con il governo greco per porre fine a una guerra diplomatica che durava da 27 anni. La nazione si chiamerà Macedonia del Nord, schivando così ogni eventuale confusione con la regione greca che porta lo stesso nome. Usciti da un contenzioso le cui origini appartenevano a un altro secolo, si punta ora a un obiettivo più pragmatico: entrare nella Nato, forse anche prima del 2020, e iniziare il processo di adesione all’Unione europea.
L’influenza a stelle e strisce
«Siete favorevoli all’entrata nella Nato e nell’Ue accettando l’accordo siglato tra la Repubblica di Macedonia e la Grecia?». A questo quesito dovranno rispondere i macedoni nel referendum, al quale seguirà, se nulla va storto, il dibattito nel Parlamento di Skopje e poi in quello greco. È il tentativo più concreto, dopo anni di schermaglie e marce indietro. Nel 1995 già c’era stato un accordo tra i due Stati, le Nazioni Unite lo avevano appoggiato, ma nel 2008 la Grecia si oppose all’entrata del Paese nella Nato e, l’anno seguente, fu bloccato l’inizio dei negoziati per l’entrata di Skopje nella Ue.
Ma sono in tanti a sognare ora la pace - e non solo con la Grecia. «Voi credete veramente che questo accordo ci piaccia? Non è così. Non c’è neanche una riga nella quale si chiarisca che il nostro Paese è uno Stato multietnico. Però lo vediamo come l’unica opportunità per andare avanti. E per questo lo appoggiamo. Tutti gli albanesi lo faranno», dice il deputato di etnia albanese Zijadin Sela. «Abbiamo bisogno dell’Unione europea e anche della Nato per dare stabilità e diritti alle nostre comunità, per evitare che la povertà e le discriminazioni facciano scivolare taluni verso fenomeni come quelli dei foreign fighters», insiste Sela, seduto in un autogrill sulla strada che congiunge Skopje con Pristina, la capitale del Kosovo.
Nikola Dimitrov, 46 anni, ministro degli Esteri macedone, ci riceve invece in un palazzo del governo. È stato lui, il capo negoziatore macedone, uno degli uomini chiave dell’accordo firmato il 17 giugno sulle rive del lago Prespa. Brillante, occhiali da sole, il passo sciolto, il sorriso facile e un ottimo inglese, eredità degli anni trascorsi come ambasciatore negli Stati Uniti, è ora inseguito da una schiera di diplomatici europei e statunitensi che non aspettano altro che incontrare lui. «Appena ottenuto l’incarico, sono andato ad Atene. Era giugno dell’anno scorso. Da allora è stato come vivere sulle montagne russe, ci sono stati molti alti e bassi. Ho avuto contatti con il ministro degli Esteri greco, Níkos Kotziás, ogni settimana, due al massimo», ci racconta.
Raggiungere l’accordo, pur sotto l’auspicio dell’Onu, è stato un fine gioco di diplomazia. Dopo due decenni di insuccessi, il primo passo è stato quello di portare i negoziati ad un livello più alto. Così dalle discussioni fra consiglieri con poco potere decisionale (il cui lavoro è continuato comunque) si è passati agli incontri fra ministri. Dimitrov e Kotziás, appunto. «La svolta è arrivata a gennaio a Davos, dopo l’incontro tra Zaev e il primo ministro greco, Alexis Tsipras. Si sono visti per più di due ore», spiega Dane Talevski, uno dei consiglieri del primo ministro macedone che ha lavorato all’accordo.
Talevski siede dietro a due bandiere della stessa misura dell’Unione europea e della Nato, poggiate sulla sua scrivania di legno nel suo ufficio nella sede del governo macedone. È un uomo dai pochi capelli e gli occhi verdastri, di malavoglia risponde alle domande dei cronisti che vogliono frugare dietro le quinte dei negoziati. «Lì, a Davos, si è promesso anche di mandare alcuni segnali di buona volontà. Noi abbiamo tolto il nome di Alessandro Magno all’aeroporto e all’autostrada E75 che collega Skopje con Salonicco, un segnale d’amicizia verso Atene. Loro ci hanno permesso di entrare nell’Eusair (EU Strategy for the Adriatic and Ionian Region) e di accedere a maggiori fondi europei», racconta.
Del resto, la cosa interessava pure agli statunitensi. Tanto che ci sono stati anche advisor di lì. «Gli Stati Uniti hanno una grande influenza nella regione, specialmente nella comunità albanese, incluso quella che vive in Macedonia. E questo Paese è forse è l’ultimo della regione che vorrà unirsi alla Nato, permettendo di arginare altre possibili influenze che possano arrivare», spiega Samuel Žbogar, senza pronunciare la parola Russia. Lui è il capo della delegazione Ue a Skopje e ha seguito i negoziati da vicino, pur non essendo né la Ue né gli Stati Uniti formalmente parte delle discussioni.
« Fuori fa più freddo »
«Questo Paese è importante per l’Unione europea perché preferiamo esportare stabilità piuttosto che importare instabilità nell’Ue. È una nazione strategica anche per i flussi migratori», aggiunge Žbogar, ex ministro degli Esteri della Slovenia che lavora per la Ue sul dossier Skopje dal 2016. «I Paesi membri non hanno dato garanzie che la Macedonia entrerà nell’Ue, ma hanno detto che è possibile iniziare un negoziato, se la questione del cambio di nome andrà a buon fine. Per questo, già gli abbiamo dato una lista di cose da fare. Se perdono questo treno, non so quando ne passerà un altro», aggiunge.
Anche se, in verità, in anni di Brexit e di procedure d’infrazione per Paesi membri (Polonia, Ungheria), è anche l’europeismo dei Balcani che fa gola. Una vittoria, tra le tante, infinite, notizie negative che arrivano a Bruxelles. «A Londra mi hanno domandato perché vogliamo entrare quando loro se ne vanno. Ho risposto che chi sta dentro dimentica quanto fa freddo fuori. Vogliamo una democrazia liberale. Per questo, anche se sappiamo che ora è più difficile, stiamo cercando di mirare a un bersaglio mobile», spiega Dimitrov, il ministro degli Esteri macedone. «Con tutti i suoi difetti, l’Unione europea è l’unica alternativa possibile a tutte le grandi sfide che ci sono. Non possiamo, per esempio, risolvere le questioni migratorie con politiche nazionali, ma solo con le politiche europee», aggiunge.
È forse per questo che «metà del Bundestag, il Parlamento tedesco, è venuto a Skopje», come sottolinea Simonida Kacarska, fondatrice dell’Istituto di politiche europee della capitale macedone. In verità molti sono stati i nomi della politica europea e statunitense che, in queste settimane, hanno fatto rotta verso Skopje: il capo della Nato Jens Stoltenberg, il segretario alla Difesa statunitense, Jim Mattis, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, la commissaria europea Federica Mogherini e anche la ministra della Difesa italiana Elisabetta Trenta. Persino George W. Bush, dagli Stati Uniti, ha invitato i macedoni ad andare a votare.
La trappola dell’identità
Del resto nessuno si sarebbe immaginato dodici anni fa che si sarebbe giunti fin qua, quando i conservatori del Vmro-Dpmne presero il potere, dando poi il via nel 2010 al progetto Skopje 2014, un costosissimo piano di riforma urbanistica per trasformare la capitale e celebrare il nazionalismo, a suon di statue kitsch di Alessandro Magno e giganteschi edifici in stile neoclassico. Che ha reso Skopje irriconoscibile. Un cantiere a cielo aperto che ha cambiato il volto della città per sempre fino alla Šarena Revolucija, ovvero la “Rivoluzione colorata” che nell’aprile del 2016 ha invaso le strade della capitale, quando la popolazione si è risvegliata dal suo letargo nazionalista.
Salvo poi, nell’aprile dell’anno scorso, ricadere in un episodio che ha ricordato gli anni più bui. Gli scontri nel Parlamento macedone del 27 aprile del 2017, che esplosero dopo che l’allora capo dell’opposizione rese pubblico un accordo con i partiti della minoranza albanese per nominare il primo presidente del Parlamento macedone di questa comunità, l’ex guerrigliero Talat Xhaferi. Negli scontri fu ferito l’attuale primo ministro Zaev, dopo che alcuni sostenitori del Vmro-Dpmne lo attaccarono, lasciandolo grondante di sangue. «Per quel terribile episodio sono state accusate 35 persone, tra cui quattro deputati conservatori. Tra i capi d’imputazione c’è l’accusa di atti criminali a fini terroristici come induzione», spiega Natasha Damjanovska, ex giudice della Corte costituzionale del Paese.
Un atteggiamento, del resto, che è stato la punta dell’icerberg di una società ferita e a lungo intrappolata nelle sua disperata ricerca di un’identità che non venga messa in discussione. «Ci spiegate perché noi dobbiamo cambiare il nostro nome per un capriccio dei greci?», dicono alcuni rappresentanti del piccolo ma agguerrito gruppo ????????? (Boicottera), che promuove il boicot del referendum. «Anche noi abbiamo in passato negoziato con i greci, ma mai si è discusso di cambiare la Costituzione macedone», aggiunge Antonio Milošoski, deputato di Vmro-Dpmne. Però neppure nel suo partito, o di quello che ne rimane, tutti la pensano così.