Non ha un esercito, non firma trattati di pace, non dispone di sanzioni né droni. Eppure, quando il Papa parla, in certe parti del mondo si smette di sparare. È quanto emerge dallo studio "Dear Brothers and Sisters: Pope’s Speeches and the Dynamics of Conflict in Africa", pubblicato come Centre for Economic Policy Research Discussion Paper da Mathieu Couttenier (ENS de Lyon), Sophie Hatte (ENS de Lyon), Lucile Laugerette (ENS de Lyon), e Tommaso Sonno (Università di Bologna): i discorsi pronunciati dai Papi dalla Basilica di San Pietro, quando menzionano esplicitamente un Paese africano in relazione alla pace, sono seguiti da una riduzione della probabilità di conflitti pari al 23% nelle settimane successive.
Ma dietro questa media si nasconde una realtà più complessa: l'impatto varia radicalmente a seconda del Pontefice che pronuncia il discorso. Giovanni Paolo II, quando interveniva, determinava una riduzione della probabilità di conflitti vicina al 90%. Durante il suo pontificato, Papa Francesco, pur con effetti mediamente più contenuti (attorno al 21%), si distingueva per la capacità di influenzare un numero più ampio di tipologie di violenza, comprese quelle a bassa intensità, spesso invisibili agli occhi dei media internazionali. Diverso il caso di Benedetto XVI. Con la sua natura più dottrinale ed ortodossa, non mostra in media effetti pacificatori. In alcuni contesti, al contrario, i suoi discorsi coincidono con un aumento della conflittualità, specie nei teatri interreligiosi più delicati. Emblematico in questo senso il discorso di Ratisbona del 2006, in cui Benedetto XVI citò un imperatore bizantino che criticava l'Islam, provocando reazioni accese e proteste in molte parti del mondo musulmano.
L’osservazione scientifica che evidenzia una concreta diminuzione dei conflitti dopo certi discorsi papali smentisce le critiche interne che riducono l’azione del Papa a mera retorica simbolica e conferma che la scelta del nuovo Pontefice, oggi più che mai, assegna al conclave una responsabilità che va ben oltre la sfera spirituale: decidere chi guiderà una delle poche voci globali capaci di influenzare davvero la pace e gli equilibri geopolitici mondiali.
L’evidenza emersa – fondata su più di venti anni di dati, migliaia di eventi violenti geolocalizzati e incrociati con le parole dei Papi – impone una riflessione che va oltre i confini della teologia. I dati comprendono tutti i discorsi pubblici dei Papi, raccolti dagli archivi ufficiali del Vaticano e filtrati per contenuti legati alla pace e all’Africa. Gli eventi violenti sono mappati su base settimanale e organizzati a livello di celle di 55 km quadrati che coprono tutto il continente africano. A questi si affiancano dati originali sulla presenza capillare delle chiese cattoliche nel continente, informazioni sui vescovi e sulla leadership politica locale, nonché un’analisi sistematica della diffusione mediatica dei messaggi papali, monitorando quotidiani locali e le pagine Facebook delle diocesi. In particolare, osserviamo che nei 1-3 giorni successivi a ciascun discorso papale, le notizie vengono riprese con alta frequenza dai media locali, in lingua locale, attraverso giornali e social media ecclesiastici. È a seguito di questa eco mediatica che si registra la riduzione dei conflitti.
Per testare la specificità di questo effetto, abbiamo replicato lo stesso approccio su un altro attore globale: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche in questo caso, le dichiarazioni ufficiali che menzionano un paese africano vengono rapidamente riprese dai media locali. Tuttavia, a differenza di quanto osservato per i discorsi papali, non si rileva alcuna riduzione significativa della violenza armata nelle settimane successive. È un contrasto che suggerisce come non sia solo il contenuto, ma anche la fonte del messaggio – e la sua percezione – a fare la differenza.
Un ulteriore tassello arriva proprio dalle percezioni soggettive: nei giorni successivi ai discorsi del Papa, le persone intervistate nei sondaggi di opinione dichiarano un aumento della rilevanza della religione nella loro vita quotidiana e una maggiore fiducia nei leader religiosi. Questi cambiamenti nei sentimenti e nelle attitudini aiutano a spiegare perché l'effetto dei messaggi papali non si esaurisca nella comunicazione, ma si traduca in comportamenti collettivi capaci di ridurre le violenze a livello locale.
In un contesto globale caratterizzato da un'instabilità geopolitica come non si è mai vista negli ultimi decenni, questi risultati sottolineano la particolare importanza delle prossime settimane. Il prossimo conclave non sarà soltanto un passaggio spirituale. Sarà anche una decisione geopolitica. Letti oggi, questi dati illuminano una responsabilità storica che ricade sui cardinali chiamati a eleggere il prossimo Papa. Non è solo una questione di spiritualità, di equilibri interni alla Chiesa, o di modernità rispetto ad una società che evolve. È anche, inequivocabilmente, una questione di pace. Il Papa è, nei fatti, un attore globale. E lo è in modo anomalo, perché il suo potere è tutto simbolico e linguistico. Ma proprio per questo è efficace: nessuna diplomazia può competere con l’universalità della sua parola.
Il messaggio è semplice: scegliere il Papa significa scegliere chi guiderà una delle ultime istituzioni planetarie rimaste. E se è vero che un discorso può spegnere un conflitto, allora è lecito domandarsi: il prossimo Papa saprà parlare la lingua giusta?
Non è solo il pastore di un miliardo di fedeli. È una voce che può far tacere le armi. E oggi, il mondo lo sa. Speriamo che anche il prossimo conclave lo tenga a mente.
*Tommaso Sonno, Professore Associato, Università di Bologna