Computer, una stampante 3D, strumenti di precisione. 
Per fabbricare oggetti. Siamo stati nei FabLab 
d’Italia dove nascono 
i prototipi fa-da-te di qualunque tipo di oggetto. E la Top-science si fa consumer (Foto di Pietro Paolini per l'Espresso)

In Italia quelli ufficiali sono 27, ma è difficile effettuare una stima precisa perché molti sfuggono alle etichette. Sono i FabLab, moderne officine dove chiunque abbia in testa un prodotto da realizzare, da un semplice bicchiere a un ben più complesso dispositivo elettronico, può fabbricarne un prototipo a costi contenuti.

Ai Fablab si appoggiano i maker, una categoria eterogenea che va dallo scienziato al semplice appassionato di tecnologia. Quello che li unisce è la volontà di costruirsi da soli i propri oggetti, in modo da controllare meglio il processo di produzione e abbattere i costi.

Se la realizzazione è preceduta da una fase di studio e progettazione, le limitazioni sono davvero poche: dai FabLab escono ogni giorno utensili per la casa, ma anche cellulari o abiti originali. Qualche mese fa, per esempio, ha ricevuto un record di click il blog di un giovane maker tedesco che ha postato le istruzioni per fabbricare un computer portatile a partire da  un secchio di plastica e pochi altri materiali facilmente reperibili.
Il movimento maker nasce negli Stati Uniti nei primi anni 2000 ma ultimamente ha acquistato dimensioni importanti e dai pochi appassionati che si dilettavano nei garage si è arrivati ai laboratori universitari. Tutto questo è possibile grazie alla condivisione delle competenze e alle stampanti 3D, che permettono di produrre un oggetto senza appoggiarsi a una realtà industriale.

Una stampante da sola, però, non basta. Secondo il Mit (Massachusetts Institute of Tecnology) di Boston, che per primo ha dettato le linee guida ufficiali, un FabLab deve essere dotato di una serie di strumenti, dal computer alla stampante 3D, passando per macchinari di precisione. E deve cooperare con gli altri laboratori digitali, grazie a internet e a piattaforme liberamente accessibili come Arduino, la scheda elettronica made in Italy facile da programmare.
[[ge:rep-locali:espresso:285131265]]
Ma come lavorano i nostri maker? Da Torino alla Costiera Amalfitana, siamo andate alla scoperta dell’artigianato digitale italiano.

PRIMATO SOTTO LA MOLE
È a Torino che è nato il primo FabLab d’Italia. Iniziato come esperimento nel 2011, è proseguito grazie a Massimo Banzi, membro del team che ha inventato la scheda elettronica programmabile Arduino, nata a Ivrea e oggi utilizzata in tutto il mondo. Banzi decise di dedicare parte degli spazi della nascente sezione Ricerca e Sviluppo della sua azienda Officine Arduino a un FabLab.
«Da noi possono passare maker, artigiani o imprenditori», racconta Stefano Paradiso, coordinatore di FabLab Torino: «Si tratta di figure che hanno solo alcuni aspetti in comune. Il FabLab permette a tutti l’accesso alla tecnologia».

Fabrizio Alessio, per esempio, ha 28 anni, capelli spettinati e sguardo da sognatore. Dopo la laurea in disegno industriale, ha preferito frequentare il FabLab, invece di cercare un posto di lavoro in uno studio. «Volevo sviluppare due idee che mi ronzavano nella testa da un po’ di tempo», racconta: « La prima è una carrozzina per sport indoor. Sul mercato un oggetto del genere può costare tra i 2.500 e i 5.000 euro, mentre quella che ho progettato unisce materiali più economici a caratteristiche del fai-da-te e si può avere a 200 euro». Naturalmente le prestazioni non sono le stesse, ma il basso budget può essere un incentivo per chi non ne farà un uso professionale o per chi ha una disabilità momentanea, per esempio una gamba rotta. Nel FabLab Fabrizio ha potuto muovere i primi passi e costruire materialmente la carrozzina, verificando di persona i punti deboli del progetto: «In questo momento la carrozzina è in fase di test», spiega: «Dopodiché sarà possibile scaricare gratuitamente le istruzioni per l’assemblaggio. Parallelamente cercherò di avviare una piccola linea produttiva per poter vendere kit di montaggio».

L’altra idea di business riguarda una serie di gioielli in lega di alluminio. «Ci lavoro da diversi anni e nel FabLab ho potuto utilizzare strumenti per lavorazioni sperimentali sui prodotti e occuparmi del packaging. Tutto questo fuori di qui avrebbe richiesto un’infrastruttura di tipo industriale con costi inaccessibili». Negli ultimi anni Fabrizio ha portato i braccialetti in alcuni design store e in fiere dedicate: «I feedback sono stati positivi, ora sto preparando una strategia d’impresa per capire come investire sul prodotto e come affrontare il mercato della distribuzione. Sono arrivato al mio giro di boa». Se Fabrizio riuscirà a trovare finanziatori e risorse per proseguire, i suoi gioielli in lega di alluminio potrebbero passare da una nicchia di mercato a una distribuzione più ampia. Se così non fosse «avrò avuto la possibilità di lavorare concretamente a costi ragionevoli e senza dover produrre oggetti su larga scala», conclude.

DRONI SUL DUOMOì
La sede del Fablab Milano si trova a nord della città, all’interno di una moderna struttura di vetro e acciaio. Chi ci accoglie è Massimo Temporelli, uno dei fondatori, con Francesco Colorni e Giovanni Gennari, del FabLab milanese. Cravatta marrone su camicia mezzemaniche a quadri è il look scelto dal fisico appassionato di storia della scienza e della tecnologia. «I FabLab? Li abbiamo inventati noi italiani nel ‘500, quando il nostro Paese pullulava di botteghe dove mastri artigiani e garzoni creavano capolavori», dice.
Tra le molte persone che affollano il luminoso open space del FabLab milanese, Roberto Alfieri, 50 anni, è un professionista che si occupa di registrazioni video. È il “dronista” del gruppo, cioè colui che costruisce e guida i droni, robot telecomandati in grado di volare, come quelli che Amazon pensa di utilizzare in futuro per le proprie spedizioni. «Con la mia azienda utilizziamo i droni dal 1999 per le riprese aeree» spiega: «Era da un po’ che accarezzavo l’idea di costruirne uno. Qui al Fablab ho trovato le competenze che mi servivano per riuscire nell’impresa». Alfieri ci mostra un prototipo di circa 10 kg che ha realizzato nel laboratorio milanese: «È costruito con materiali leggeri come acciaio, carbonio e fibra di vetro. Posso comandarlo a distanza e, a seconda dell’altezza raggiunta, i led lampeggiano in modo diverso. In questo modo, oltre a leggere sullo schermo del telecomando l’altezza, posso avere la conferma guardando direttamente il drone». In questo momento la fase di commercializzazione è lontana e Alfieri sta testando i prototipi, oltre a essere tra i docenti che insegnano a costruirli durante i corsi organizzati all’interno del Fablab milanese.

COMINCIAMO DALL’UNIVERSITÀ
A Pisa Daniele Mazzei, Carmelo De Maria e Gualtiero Fantoni fanno parte di una squadra affiatata. I tre svolgono attività di ricerca al centro di ateneo Enrico Piaggio, dove da anni si sta cercando un collegamento tra università e impresa. «Come ricercatori abbiamo sempre seguito gli studenti durante la loro tesi di laurea. Ma mancava una struttura che trasformasse quelle idee in oggetti fisici», commenta Mazzei.
Dal 2012, anno della fondazione, dal FabLab Pisa sono passati molti progetti. Come Besos, del venticinquenne salentino Luigi Francesco Cerfeda, che è arrivato in finale alla competizione della Maker Faire. «Luigi aveva un bella idea per la sua tesi e noi lo abbiamo aiutato a realizzarla nel concreto», afferma orgoglioso Mazzei. Besos - acronimo che sta per Bio Engineering Systems for Open Society - è un caschetto indossabile, in grado di rilevare i segnali dell’attività del cervello di chi lo indossa e inviarli a un computer. Un progetto ambizioso con un design personalizzabile, che mira a far dialogare le macchine con il corpo umano.
“Kiss the revolution”, bacia la rivoluzione: è questo il motto del progetto dell’ormai ex studente di ingegneria biomedica, che oggi sta cercando di costruire un’impresa che ruoti proprio intorno al caschetto.
La scheda elettronica di Besos funziona con il sistema Arduino. «A differenza delle classiche cuffiette utilizzate durante l’elettroencefalogramma, il casco di Besos è personalizzabile in base alle dimensioni effettive del cranio del paziente e al numero di elettrodi per rilevare l’attività celebrale, che varia in base al tipo di indagine», racconta Cerfeda. Grazie alla sua capacità di adattarsi, Besos potrà essere utilizzato nell’ambito della ricerca scientifica e non solo.
Il casco, infatti, può essere facilmente smontato in piccoli pezzi a loro volta riassemblabili in mini veicoli giocattolo, pensati per favorire un approccio più amichevole alla strumentazione medica dei pazienti in età pediatrica.
Per prepararsi al meglio al lancio sul mercato della sua creazione, quest’anno Luigi ha frequentato il Phd Plus, il programma di formazione dell’Università di Pisa che mira a far acquisire competenze imprenditoriali ai ricercatori. «Per attrarre potenziali investitori le conoscenze tecniche non bastano. Per questo sto studiando anche marketing e comunicazione», conclude Cerfeda, che al momento è alla ricerca di uno sponsor per il progetto

SMART CITY SUL GOLFO
Amleto Picerno ha visto per la prima volta un Fab Lab nel 2007 a Barcellona, quando era ancora studente al master in architettura avanzata in Catalogna. Tornato in Italia, ha pensato di replicare il modello nella sua città di origine, Cava de’ Tirreni, sulla costiera Amalfitana. «Siamo partiti nel 2009, organizzando un workshop sulla fabbricazione digitale, cioè la realizzazione di oggetti solidi a partire da un disegno sul computer», ricorda. Grazie alle quote di quella prima attività Picerno e gli altri quattro fondatori del Mediterranean FabLab hanno potuto acquistare alcuni macchinari, mentre la sede è stata ricavata all’interno di un immobile comunale. Il terzo piano di una palazzina del ‘700 si è così trasformato in uno spazio moderno, dove si tengono corsi per studenti, professionisti, ma anche per imprenditori nel settore dell’innovazione e consulenti delle amministrazioni. Il focus principale è sull’architettura e lo sviluppo di città smart, dove cioè la tecnologia interviene nella vita di tutti i giorni.
E se al primo workshop gli iscritti erano tutti stranieri, da un paio di anni anche gli imprenditori delle aziende locali si stanno avvicinando curiosi al FabLab. Come Valeria Prete, ingenere trentenne e manager di una ditta specializzata nel settore della produzione di infissi. «Facciamo chiusure ma siamo molto aperti», sorride Prete, che ha preso in mano l’azienda di famiglia dopo esserci praticamente cresciuta dentro. «Per questo quando Amleto ci ha proposto una collaborazione abbiamo accolto subito l’idea». Il compito del Fablab è stato quello di riprogrammare i macchinari già presenti in azienda e formare il personale in modo da aumentare la qualità della produzione.

Così adesso l’azienda di Valeria produce infissi a oscuramento programmabile in base alla luce e al vento, facciate ventilate personalizzate sulle richieste dell’utente riguardo alla temperatura o all’acustica, e padiglioni con materiali innovativi. «Non so se ci sia un vantaggio economico immediato nella collaborazione con un FabLab, ma di sicuro così si riescono a cogliere cogliere nuove opportunità nelle persone e nelle macchine che già conosciamo», conclude Prete.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso