Tedeschi a parole italiani nei fatti. Clientelismo e corruzione vanno di moda anche a Berlino

Il salvataggio delle banche con i fondi dello Stato. E il cartello tra i big dell’auto. Il rigore teutonico vale per tutti, non per la Germania. Qui il familismo amorale di stampo italiano la fa da padrone: «Hanno pensato a salvare se stessi per poi diventare rigoristi a spese altrui»

Le cronache raccontano che nell’estate del 2007, all’alba della crisi finanziaria destinata a frantumare certezze e bilanci dell’Occidente, la prima banca che implorò l’intervento pubblico per evitare il crack fu la tedesca Ikb, seguita di lì a poco dalla connazionale Sachsen LB. Da allora, secondo i calcoli più recenti, il governo di Berlino ha mobilitato quasi 200 miliardi di fondi statali per salvare il sistema creditizio del Paese: da colossi come Commerzbank fino alle Sparkasse locali, travolte da un decennio e più di cattiva gestione, tra speculazioni azzardate e prestiti a rischio.

L’esatto ammontare degli aiuti di Stato alle banche tedesche è da tempo oggetto di dibattito tra gli analisti. C’è chi è arrivato a calcolare, sommando al totale anche le garanzie e le linee di liquidità temporanee, un impegno complessivo superiore a 400 miliardi di euro. Prendendo per buona la cifra di 200 miliardi si arriva comunque a un esborso complessivo pari all’incirca al 7 per cento del prodotto interno lordo tedesco. Uno sforzo colossale per la più forte economia del continente che, come ha scoperto a sue spese, era sostenuta da un sistema bancario fragile e molto spesso corrotto. La crisi delle Landesbank, paragonabili alle nostre casse di risparmio, è stata amplificata da un sistema di clientele e favoritismi cementato dalla presenza di esponenti politici nei consigli di amministrazione degli istituti, nel cui capitale sociale erano (e sono) rappresentati in forze gli enti pubblici locali. Questa miscela esplosiva di corruzione e campanili ricorda molto quanto è successo nei film dell’orrore nostrani, dall’Etruria alle Popolari venete, fino a Banca Marche.
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Nelle crisi delle banche regionali tedesche il rigore teutonico si è appannato fino a somigliare molto al familismo amorale di marca italiana. E qualcosa di simile pare sia successo anche nel caso del presunto accordo di cartello tra le grandi case automobilistiche tedesche, Volkswagen, Mercedes e Bmw. I colossi delle quattro ruote avrebbero imbrogliato il mercato stipulando intese segrete con l’obiettivo di contenere i costi e aggirare le normative. Comprese, per fare un esempio, anche le regole sulle emissioni dei motori diesel, già al centro di indagini e di super multe (14,7 miliardi di dollari a Volkswagen negli Usa) su entrambe le sponde dell’Atlantico.

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Anche nell’alto dei cieli talvolta Italia e Germania condividono vizi comuni. Saranno gli aiuti di Stato, quelli del governo tedesco, a evitare la chiusura di Air Berlin travolta dalle perdite. Proprio come è successo solo pochi mesi fa con l’Alitalia, salvata, per la terza volta in dieci anni, con il decisivo contributo delle casse pubbliche. Cambia solo l’entità del finanziamento statale: 600 milioni per la società tricolore e 150 per quella germanica. Insomma, un doppio salvataggio sull’asse Roma-Berlino. Con buona pace dei tedeschi di Lufthansa, che nel 2014 partirono all’attacco dei concorrenti italiani, con tanto di denuncia alla Commissione di Bruxelles, quando il governo di Enrico Letta scongiurò il crack di Alitalia agevolando l’ingresso dei nuovi soci arabi. «Concorrenza violata», strillavano in Germania. Adesso invece, a soli tre anni di distanza, i severi guardiani del mercato osservano un religioso silenzio mentre Lufthansa, interamente controllata da capitale pubblico, si prepara a farsi carico di quel che resta di Air Berlin.
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Nel caso dei disastri bancari, le analogie tra Germania e Italia si fermano alle comuni origini localistiche di alcune delle crisi. L’incendio tedesco è stato infatti domato con largo anticipo rispetto a quanto è avvenuto in Italia. Ad aprile del 2014, quando il Parlamento europeo ha approvato la direttiva sulla risoluzione degli enti creditizi, la Germania aveva già in gran parte provveduto a scongiurare il crack del sistema bancario grazie a massicce dosi di fondi pubblici. Ovvero quel tipo di aiuti che le nuove norme europee avrebbero poi messo al bando, fatte salve poche e delimitate eccezioni, prescrivendo l’obbligatorietà del bail in, cioè il salvataggio finanziato non più a spese dei bilanci pubblici, ma con il contributo determinante di soci e creditori privati.

«I tedeschi hanno pensato a se stessi per poi diventare rigoristi a spese altrui». È questo, in sintesi, l’argomento polemico cavalcato dalla classe politica nostrana, dal Pd renziano fino ai Cinquestelle, per attaccare il governo di Berlino. È anche vero, però, che a partire almeno dal 2011 i governi di volta in volta al potere a Roma hanno perso tempo cullandosi nell’illusione che il sistema bancario tricolore fosse immune, o quasi, dal contagio della crisi mondiale. Da parte loro, le authority di controllo, Banca d’Italia e Consob, si sono ben guardate dal turbare il sonno dei politici. Così, quando i buchi in bilancio sono finalmente emersi, era diventato molto più difficile, sulla base delle nuove regole europee, attingere al serbatoio dei fondi di Stato.
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Detto questo, i 17 miliardi stanziati per la crisi delle Popolari venete, e gli 8,3 miliardi impiegati per il salvataggio del Monte dei Paschi, restano ben poca cosa rispetto alle somme impiegate dalla Germania negli interventi a sostegno delle proprie banche. Va detto però che gli istituti che hanno ricevuto gli aiuti di Stato erano già in buona parte, per almeno il 40 per cento, a partecipazione pubblica. Il governo tedesco si è quindi mosso per salvaguardare un proprio cespite e non ha nazionalizzato beni in precedenza a controllo privato.

Una ricerca pubblicata di recente dall’ufficio studi di Mediobanca segnala che le sei maggiori Landesbank tra il 2008 e il 2009 hanno ricevuto circa 27 miliardi di euro di contributi pubblici, pari al 69 per cento dei loro mezzi propri all’inizio del periodo considerato. Le stesse banche, che rappresentano il 13 per cento circa delle attività del sistema creditizio del Paese, hanno inoltre beneficiato di garanzie statali per altri 96 miliardi. Buona parte di questi interventi si è concentrata nella prima fase della crisi finanziaria globale, tra il 2008 e il 2010, ma ancora nel 2015 banche come la Hsh Nordbank hanno evitato il naufragio grazie a un salvagente del valore di 3 miliardi messo a disposizione dai suoi principali azionisti: la municipalità di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein. Anche nella vicina Brema la locale Landesbank pare tutt’altro che risanata. Il bilancio 2016 si è chiuso con 1,3 miliardi di perdite per effetto di svalutazioni di prestiti a rischio per 1,5 miliardi.

Come dire che ci vorrà ancora tempo per coprire una volta per tutte i buchi delle casse locali, mentre sul futuro del sistema creditizio tedesco pende ancora l’incognita della Deutsche Bank, la più grande banca del Paese, un colosso globale messo quasi al tappeto da investimenti sbagliati ed eccesso di speculazione. Nel marzo scorso un nuovo aumento di capitale, il terzo in quattro anni, ha raccolto altri 8 miliardi di euro sul mercato per rafforzare il patrimonio come richiesto dalle autorità di controllo. E, dopo le maxi perdite degli anni scorsi (1,4 miliardi nel 2016 e 6,8 miliardi nel 2015), l’istituto con base a Francoforte ha chiuso il primo semestre del 2017 con profitti netti per un miliardo.

I conti migliorano, quindi, ma adesso i rischi maggiori sembrano legati alle vicissitudini dei due soci più importanti: la famiglia reale del Qatar (9 per cento) e il gruppo cinese Han (9,9 per cento circa). Il ricco emirato è finito nel mirino delle sanzioni economiche varate da un fronte arabo a guida saudita ed è possibile che scelga di ridurre il suo impegno sui mercati. La holding di Pechino deve invece fare i conti con il giro di vite imposto dal proprio governo nei confronti di alcuni grandi investitori. Anche in questo caso c’è quindi il rischio di un disimpegno. Per la Germania sarebbe il colmo: messa alle strette da arabi e cinesi, da sempre suoi grandi clienti.

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