Domanda: come mai, sui giornali, quando si parla della moda non vengono pubblicate le classifiche dei capi d’abbigliamento più venduti? Eppure sarebbe interessante sapere come vestiamo, dove acquistiamo le nostre giacche, gonne, camicie, calze, quali marchi compriamo.
E ancora, perché, quando si parla di cibo, un argomento frequentatissimo dai media, non si dedicano pagine e pagine alle classifiche della popolarità delle catene di ristorazione o delle singole trattorie, ma si opta invece per riportare il giudizio di qualità degli esperti culinari?
Insomma, quando parliamo del cosa ci metteremo addosso la prossima stagione e che cosa mangeremo, quando porteremo a cena il nostro o la nostra partner, il discorso si fa sulla qualità, mai o raramente sulla quantità. E così sappiamo che il tal stilista ha imposto il linguaggio nuovo, interpretando attraverso i vestiti, lo spirito del tempo (guerra, pace, gioia, nostalgia e via esemplificando). Lo stesso discorso vale per i grandi chef, premiati con un certo numero di stelle in base alla loro capacità di raccontare attraverso il cibo (il cibo è idioma) alcune caratteristiche dell’avvenire.
E allora, un’ulteriore domanda: perché invece, quando si parla dei libri è così importante informare i lettori su quali sono i volumi più venduti? E che cosa ci dicono le classifiche dei libri, specie (più che altrove) in Italia?
A scanso di equivoci, una persona che voglia farsi aiutare dai giornali nella scelta dei libri da acquistare ha a disposizione, quasi sempre, una serie di recensioni. Ma allora, perché le recensioni dei libri, a differenze delle recensioni dei ristoranti e delle sfilate, non bastano? Perché appunto le classifiche?
Cominciamo dall’inizio. Fu la rivista newyorkese “The Bookman” a inaugurare, nel 1895, la rubrica “Libri nuovi in ordine di vendita”. E anche se qualche esperto spiega quanto l’idea fosse nata, sempre negli stessi anni nei circoli editoriali di Londra, è negli States che sapere quanto venda un libro fosse stato allora fondamentale.
Siamo a una trentina di anni dalla Guerra civile, in un Paese che sta assorbendo masse di immigrati dall’Europa, costruisce città e edifici giganteschi; e dove si sta forgiando una nuova identità, basata sulla prevalenza dell’esperienza concreta, con il mito del self made man, l’uomo che diventa ricco e di successo grazie al proprio ingegno e non per via dei natali o dell’istruzione. Ricchezza e successo sono sinonimi. Dire quanto vendevano certi libri era una specie di moto di stampo populista e democratico; era l’emancipazione dall’accademico sapere dei professori universitari, interessati più ai classici del Vecchio Continente che all’esperienza del Mondo Nuovo. Le classifiche erano portatrici di un messaggio: vogliamo la velocità, la soddisfazione immediata; specie di anticipazione del futurismo.
Senza perifrasi: oggi, le classifiche ci parlano ancora e sempre della soddisfazione immediata e della velocità dei consumi, ma non ci dicono più niente sulla letteratura. Peggio, ci inducono a scambiare il consumo e gli indizi di stampo sociologico, per indagine e giudizio letterari. Quanto sopra, non è un’affermazione per cui chi vende bene non è un bravo scrittore mentre chi non vende è un genio incompreso. Si può vendere benissimo e avere il posto assicurato nella storia della letteratura (è il caso di Philip Roth), si può essere un bestsellerista e grande scrittore (Stephen King). Il punto è un altro: è il tempo. Non il tempo di lettura, ma la durata del libro nel tempo.
Guardiamo le classifiche di questo ultimo periodo. I libri (stiamo parlando della narrativa) sono spesso ben scritti. E di cosa parlano? Delle bambine, che è bene che siano ribelli, delle malattie curate e fatali e quindi del dolore di chi ha attraversato il male o di chi deve confrontarsi con la perdita della persona amata; e anche libri che sono derivazione diretta del mondo on line delle adolescenti YouTuber. In parole povere: leggendo le classifiche si ha la percezione precisa dei temi e dei protagonisti della società italiana, oggi.
La classifica ci parla della prevalenza delle donne, del linguaggio trasversale degli adolescenti e dell’enorme interesse in tutto ciò che riguarda i tumori. Quanti di questi libri resteranno? Quanti (anche tra quelli scritti bene; ed è pure giusto condividere angosce ed esperienze) verranno letti fra dieci, vent’anni? Non è una domanda oziosa. La letteratura, ripetiamo, vive nel tempo, altrimenti è morta nel momento in cui il libro viene dato alle stampe. La letteratura è sedimentazione, lentezza, riflessione. I libri non ci rendono migliori (talvolta possono renderci più cattivi), ma ci rendono consapevoli: di noi stessi, del Bene e del Male, dei nostri sentimenti reconditi; ecco perché la letteratura ridotta a un bene di consumo immediato non è più letteratura.
E non dimentichiamo che le classifiche sono costruite su un campione di libri venduti in alcune librerie, nell’arco di una settimana, e quindi non fanno altro che suggerire: chi vende bene, velocemente e risponde al bisogno immediato, è un grande scrittore. Ha già raccontato su questo settimanale Marcello Fois quanto gli autori più venduti di prima della guerra siano stati Pitigrilli e Guido Da Verona. Del primo si ricorda oggi l’opera di delazione per conto dell’Ovra; del secondo niente, mentre tutti i liceali studiano Italo Svevo che vendeva pochissimo.
E allora, aboliamo le classifiche? Forse sarebbe un atto salutare. Specie in un Paese dove la confusione indotta dal sistema editoriale tra quantità, politica e qualità è molto più marcata che altrove. Un esempio per tutti: solo in Italia il premio più importante, lo Strega, è quasi sempre conferito in base alle manovre di politica editoriale e non alla qualità intrinseca dei libri (il che non esclude che talvolta vinca un buon libro e che quest’anno ci siano in lizza alcuni ottimi libri) e la stessa pletorica composizione della giuria favorisce la politica a scapito dei meriti letterari.
Infine. Viviamo in un tempo di catastrofe, tra populismi, razzismi e il tutto e subito. Chi ancora pensa al futuro dovrà compiere la traversata del deserto, ma senza la guida di Mosè e di Dio. Occorre attrezzarsi. Occorre tornare alle cose essenziali, alle parole prime, all’indispensabile.