Istruzione

Con la riforma di Valditara la scuola si inchina ai voleri delle aziende

di Chiara Sgreccia   20 settembre 2023

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La misura approvata in Cdm prosegue con l'andazzo degli ultimi venti anni, nonostante fino a ora i risultati siano stati fallimentari. E così il "rispetto" e le "skills" diventano le uniche parole chiave di una istituzione che si prepara a formare manovalanza e non menti pensanti

È un gioco al ribasso a guidare il mondo dell’istruzione da più di 20 anni. Da quando, con la riforma Berlinguer-Zecchino, è iniziato il processo di aziendalizzazione della scuola. L’obiettivo era di avvicinarla al mondo del lavoro e alle esigenze del mercato. Nei fatti un impoverimento, proseguito con i pacchetti delle ministre Letizia Moratti, Mariastella Gelmini, con la “Buona scuola” di Matteo Renzi e i provvedimenti del governo Draghi. Un processo che però tocca l’apice negativo con il progetto della scuola del merito dell’attuale ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara

 

Più che stimolare le menti, formarle in modo che siano capaci di portare innovazione, sembra quasi che l’intento sia far capire agli studenti con che mondo avranno a che fare. E non fa eccezione il disegno di legge, approvato il 18 settembre dal Consiglio dei ministri, che contiene sia la riforma della formazione professionale sia la revisione della valutazione del comportamento: il voto in condotta verrà introdotto nelle scuole medie e assumerà più peso durante tutto il percorso scolastico. Una sperimentazione che interesserà, per ora, il 30 per cento degli istituti tecnici e professionali. Nei quali il percorso di studi durerà 4 anni e favorirà l’accesso al biennio negli Its Academy, gli istituti tecnologici superiori, «scuole di eccellenza ad alta specializzazione. Espressione di una strategia fondata sulla connessione delle politiche d'istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali», si legge sul sito del ministero. Con l’obiettivo di rendere «competitiva la filiera dell’istruzione tecnica e professionale trasformandola in un percorso di serie A e collegandola con il mondo del lavoro e dell’impresa», sottolinea la premier Giorgia Meloni a supporto della visione condivisa da governo e da alcuni settori dell’imprenditoria per cui il lavoro c’è ma mancano i giovani con le competenze adatte a svolgerlo. Eppure i dati dicono il contrario. 

 

Come spiega Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio, la retorica del mismatch, secondo cui non ci sono giovani con le skills adatte per rispondere alle esigenze delle imprese, «è fallace. Se guardiamo i dati Istat sui posti di lavoro disponibili nelle aziende e il numero dei disoccupati ci rendiamo conto che quelli vacanti sono solo una piccola frazione del totale: il 20 per cento circa. Già questo dovrebbe servire a capire che il problema dell’inserimento nel mondo del lavoro è un problema del mercato del lavoro». A dimostrarlo anche l’elevato numero di cittadini che lascia l’Italia alla ricerca di migliori condizioni occupazionali: un milione negli ultimi 10 anni, circa un quarto con la laurea. 

 

«L’economia del nostro Paese, fatta eccezione per la parentesi Covid-19,  negli ultimi trent’anni ha avuto una crescita modestissima», chiarisce Brancaccio, secondo cui la trasformazione della scuola punta più a una formazione orientata verso il basso degli allievi che a favorirne lo sviluppo «verso un sapere specialistico, operativo. Per fare in modo che lo studente non abbia conoscenza del carattere generale delle cose della vita e del mondo. Ma degli strumenti che diventano facilmente obsoleti in un mondo che cambia veloce. Per la creazione di bassa manovalanza con poche pretese, perché già mortificata e redarguita durante gli anni di scuola, necessaria a far sopravvivere il capitalismo scassato che resiste grazie agli aiuti dati alle imprese, ai bassi salari, agli occhi spesso chiusi su evasione fiscale e sicurezza. Che, però, è proprio la causa primaria della bassa produttività del nostro sistema che si è disabituato a quella che dovrebbe essere l’architrave del capitalismo, la frusta competitiva. Che, invece, si basa anche sulla qualità del lavoro, non solo sulla riduzione dei costi, in modo che le aziende migliori restino sul mercato mentre le peggiori escano».

 

Che il processo di adattamento della scuola, da laboratorio del pensiero, alle logiche dell’attuale mercato del lavoro sia dannoso perché avvalora una visione arretrata dell’Italia, lo sostiene anche il gruppo La nostra scuola - associazione Agorà 33 che si batte affinché gli istituti scolastici tornino a essere spazi per la crescita umana: «Anche le nuove norme per la formazione e il reclutamento dei docenti hanno sempre più a che fare con il business e meno con l’insegnamento», spiega Luca Malgioglio, professore di Lettere alle superiori, che fa parte del gruppo che ha lanciato anche una petizione per difendere la qualità dell’insegnamento e contrastare la destrutturazione della scuola, firmata da intellettuali come Luigi Ferrajoli, Alessandro Barbero e Domenico De Masi

 

«Anche la digitalizzazione delle scuole imposta dal Pnrr rischia di tradursi nell’acquisizione di pacchetti didattici preconfezionati forniti dalle aziende, sui quali queste guadagnano, che impediscono agli insegnanti di adeguare la didattica alle necessità delle classi. Non perché la conoscenza degli strumenti tecnologici non sia importante. Ma perché non sempre passa attraverso una reale analisi delle necessità degli istituti», conclude Malgioglio. A testimonianza dell’attenzione che andrebbe rivolta all’uso degli strumenti tecnologici, anche il report redatto dai ricercatori Unesco “An Ed-Tech Tragedy? che documenta le conseguenze, spesso negative, non volute e impreviste, del passaggio all’educazione digitale avvenuto con la pandemia. Il rapporto sottolinea come le disparità siano aumentate per milioni di studenti, descrive una routine quotidiana meno basata sulla scoperta e sull’esplorazione. E raccomanda, invece, alle scuole di dare priorità all’insegnamento di persona, più voce ai docenti sugli strumenti digitali da utilizzare, di verificare che le tecnologie emergenti apportino benefici concreti prima di introdurle.