Attivismo
«Così difendiamo il diritto all'aborto farmacologico. Da remoto e grazie al web»
Eleonora è referente italiana di Women on Web e supporta online chi vuole interrompere a casa una gravidanza. Scelta spesso dovuta all’inaccessibilità delle strutture pubbliche
Esiste in Italia un fronte della lotta per il diritto all’aborto presidiato da una sola persona. Si chiama Eleonora e aiuta le donne che vogliono interrompere una gravidanza con l’uso dei farmaci a ottenere il supporto online e le pillole necessarie a domicilio. Mifepristone e misoprostolo, i due medicinali necessari alla procedura, vengono prescritti da un medico all’estero e inviati per posta a casa entro pochi giorni. Viene chiesta una donazione economica, ma se la persona non può permettersela il servizio è gratuito.
Eleonora è l’unica attivista a rispondere dall’Italia alle richieste che arrivano al sito di Women on Web, organizzazione senza scopo di lucro nata in Canada nel 2005, diffusa in quasi tutta Europa – inclusi Stati con legislazioni restrittive come Polonia e Malta – e in molti Paesi del mondo. Si tratta di una piattaforma di supporto all’aborto in telemedicina: si inizia compilando un questionario medico e inviando l’ecografia; le successive comunicazioni avvengono esclusivamente via e-mail. Non sono direttamente le attiviste dell’organizzazione a inviare le pillole, ma fanno da tramite con i medici, seguono la persona in tutto il percorso di interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) e offrono supporto emotivo e le informazioni necessarie. «Nei Paesi in cui possiamo farlo, e l’Italia è uno di questi, forniamo innanzitutto informazioni sui servizi locali e chiediamo perché queste persone non se la sentono di accedervi», spiega Eleonora.
L’approvazione in Senato, il 23 aprile scorso, dell’emendamento al decreto sul Pnrr che consente alle associazioni antiabortiste di avere accesso ai consultori ha fatto scattare l’allarme anche di Women on Web, che in un comunicato ha detto di aspettarsi un aumento delle richieste di aiuto al loro servizio. «Rendere questi spazi ambienti ostili – si legge nella nota – probabilmente moltiplicherà lo stress e lo stigma che le utenti subiscono, influenzerà negativamente la qualità delle cure che ricevono e alla fine impedirà ad alcune di accedere ai servizi di Ivg».
Nell’ultimo anno, dall’Italia oltre 600 persone si sono rivolte a loro; tracciare un identikit definito è impossibile: sono cittadine italiane, ma anche straniere che vivono nel nostro Paese. «La cosa che conta per noi, rispetto a come ci si immagina il fare medicina e lo stare accanto alle pazienti, è che spesso le persone ci scrivono dopo avere fatto l’Ivg dicendoci che si sono sentite accompagnate, che hanno avuto accanto una persona che ha empatizzato con loro nonostante ci si rapporti sempre via e-mail», racconta Eleonora. Lei, già attivista in altri gruppi femministi, si è unita nel 2018 all’organizzazione canadese, attratta soprattutto dalla forza politica che può avere l’offrire una interruzione di gravidanza sicura a domicilio a chi non può permettersela altrimenti per i motivi più svariati. Un aspetto interessante che in questi anni Eleonora ha notato è proprio che c’è una parte di persone che cerca di abortire a casa per motivi che non dipendono da contingenze politiche del momento, ma perché ha esigenze familiari o lavorative oppure perché non trova nella propria zona strutture e medici disponibili ad aiutare. A loro si aggiunge una quota extra di persone che si avvicinano all’aborto farmacologico a domicilio a causa di eventi esterni, come la pandemia da Covid-19 o situazioni come quella che si potrebbe generare adesso con il clima che si creerà con l’arrivo delle associazioni antiabortiste nei consultori. Eleonora sente di trovarsi in un punto di osservazione peculiare su coloro «che non vogliono più avere a che fare con il sistema sanitario per mille ragioni e che si rivolgono a noi per potere fare una Ivg sicura».
Tra le domande più frequenti pubblicate sul sito di Women on Web una è forse la prima a venire in mente: abortire a casa è legale? Nel caso italiano siamo davanti a un limbo legislativo: l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico via telemedicina non è normato. Women on Web sottolinea che mifepristone e misoprostolo sono inseriti nell’elenco dei farmaci essenziali dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che non hanno nulla a che vedere con narcotici o sostanze utilizzate impropriamente per sballarsi; inoltre, l’utente li riceve in quantità utili solo per fini personali. Nel 2022 sempre l’Organizzazione mondiale della Sanità si è espressa proprio su questo tipo di intervento: nelle prime dodici settimane di gravidanza, l’aborto farmacologico può essere gestito autonomamente dalla paziente. Certo, la presenza di tale indicazione dell’Oms non ha impedito che nel 2023, in Polonia, l’attivista Justyna Wydrzyńska fosse condannata a otto mesi di servizi sociali per aver aiutato una donna che subiva violenza domestica ad abortire con la pillola o che, negli Stati Uniti, il mifepristone fosse messo sotto accusa da parte del movimento antiabortista, che ha tentato di invalidare la sua approvazione decisa nel 2000 dalla Food and Drug Administration.
In Italia, l’ultima novità di rilievo sull’aborto farmacologico è stata introdotta nel 2020 dalle linee di indirizzo del ministero della Salute, che hanno portato da sette a nove le settimane di gravidanza entro le quali accedere a questa procedura e l’hanno resa possibile in regime di day hospital e presso ambulatori e consultori, invece di obbligare al ricovero ospedaliero. Secondo gli ultimi dati disponibili del ministero stesso, in un solo anno, dal 2020 al 2021, le interruzioni di gravidanza con la procedura che prevede l’assunzione dei medicinali sono passate dal 31,9% al 45,3% del totale degli aborti registrati in Italia. Nel complesso, invece, il numero totale di aborti praticati in Italia con qualsiasi tipo di metodo – farmacologico o chirurgico – va costantemente calando da anni: non c’è nessun fenomeno dilagante.
La decisione del governo di Giorgia Meloni di aprire i consultori alle associazioni antiabortiste è arrivata poco dopo l’approvazione al Parlamento europeo di una risoluzione non vincolante a favore dell’inserimento del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e della richiesta di interruzione dei finanziamenti europei ai gruppi antiscelta. Un segnale politico che potrebbe avere un forte impatto sulla realtà, producendo ulteriori squilibri tra le Regioni nella tutela del diritto all’aborto. La risposta, dice l’attivista Eleonora, non è solo nella cassetta delle lettere, ma anche nella lotta per un Servizio sanitario nazionale che offra reale parità di accesso a cure di qualità.