Diritti dei lavoratori

Incredibile ma vero: negli Stati Uniti il sindacato torna a vincere

di Eugenio Occorsio   1 maggio 2024

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Lavoratori dello stabilimento Mopar del gruppo Stellantis di Ontario, California, durante uno sciopero.

Migliaia di iscritti in una fabbrica di auto del Sud: non era mai successo. E ora la United Auto Workers si prepara a dare battaglia a Tesla e anche alle big straniere. Una rinascita che pesa anche nello scontro tra Biden e Trump

C’era un concentrato di significati nell’abbraccio, domenica 21 aprile nel centro congressi dell’Hyatt Rosemont di Chicago, fra Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil, e Shawn Fain: il presidente della Uaw (United Auto Workers) era appena atterrato da Chattanooga, dove aveva vissuto un successo storico: l’adesione al sindacato dei 4.500 lavoratori della fabbrica Volkswagen del Tennessee

 

È la prima volta che la Uaw entra in uno stabilimento del profondo sud, terreno di conquista di Donald Trump, pochi mesi dopo aver conseguito una sofferta ma epocale vittoria con la firma - costata sei settimane di sciopero da metà settembre a fine ottobre - del primo contratto unitario delle Big Three di Detroit: Ford, Gm e Chrysler (ora Stellantis). «È una svolta straordinaria che avrà effetti negli Stati Uniti e oltre confine», spiega De Palma. «È il ritorno della sindacalizzazione in America, e dovremmo trarne utili insegnamenti in Italia».

 

Nel mirino della Uaw ora ci sono le altre aziende estere del settore - Bmw, Honda, Hyundai, Mazda, Mercedes, Nissan, Subaru, Toyota e Volvo - nonché l’osso durissimo Tesla a Fremont, California. L’obiettivo è aggiungere 150mila iscritti ai 150mila delle 41 fabbriche delle Big Three (ne sono state chiuse 60 in 20 anni fa). Tutto questo non sarebbe possibile senza l’appoggio di Joe Biden, che vede nei sindacati americani un serbatoio di voti essenziali per l’elezione. 

 

«Ma non c’è solo questo», assicura De Palma. «C’è la consapevolezza che il lavoro è la base di ogni economia, e non solo la via per fare profitti per gli imprenditori. Vorremmo che in Italia si arrivasse a una mentalità analoga». L’Uaw ha spuntato un contratto niente male, con aumenti fino al 32%, che salgono al 35-40% considerati i benefit come i piani aziendali di assistenza medica: si arriva a circa 45 euro l’ora (la settimana lavorativa è di 32 ore più otto di straordinario fisso). Per via dei tagli unilaterali a straordinari e benefit, oltre all’inflazione, un lavoratore dell’auto guadagnava ormai il 30% in meno (32,70 dollari l’ora) dei suoi colleghi al picco retributivo del 2003. 

 

«Sono comunque salari alti, questa è la vera classe media: non è stato solo un recupero monetario ma di prestigio», conferma Paolo Guerrieri, che ha insegnato a lungo economia a San Diego in California. Era dagli anni ’40 che la Uaw non si chiudeva un accordo così favorevole. Chrysler ha perso 3,2 miliardi di dollari per lo sciopero, la Ford 1,3 miliardi e la GM 800 milioni. «Se c’era Trump non sarebbe stato possibile - aggiunge Guerrieri – anche se Biden ha dovuto mettere in campo misure di protezionismo dall’auto cinese simili a quelle del predecessore».

 

La Uaw, fondata nel 1935 nelle linee di produzione della Ford T, un tempo era potentissima, poi è stata vittima del cambio del modello di sviluppo nell’era dell’hi-tech, ma ora arriva il rilancio. Riprende De Palma della Fiom, che ha partecipato ai picchetti dello scorso autunno: «Oltre alla nuova consacrazione dell’industria manifatturiera come asse portante dello sviluppo, valido sia per l’Italia che per l’America, c’è stato il coraggio di parlare esplicitamente di lotta della classe lavoratrice. Se un insegnamento si può trarre, è la fiducia nell’intelligenza e nel cuore di chi lavora».

 

Ci sono stati anche gli scandali: nel gennaio 2020 si aprì il processo a 21 dirigenti dell’Uaw, condannati per una sfilza di reati: truffa, estorsione, evasione fiscale, riciclaggio. Le pene più gravi sono per l’ex tesoriere Timothy Edmunds (57 mesi di galera) e l’ex presidente Gary Jones (28 mesi). Per tutti decine di milioni di multa, compreso uno e mezzo da restituire all’Uaw, che deve rimborsare 15 milioni all’erario. 

 

Eppure l’Uaw, nello spirito della miglior frontiera americana, rinasce: con il vertice rinnovato si lancia alla rincorsa di credibilità, ruolo e iscritti: nel 1979 erano 1,5 milioni, poi 540mila nel 2006 e 390mila oggi (più 600mila pensionati). Meno della metà lavorano nell’auto perché l’Uaw per mantenere un minimo di consistenza ha imbarcato i dipendenti delle aziende di ricambi e componenti, e perfino di sanità e sale da gioco. Nelle Big Three di Detroit lavorano 149mila operai, che l’Uaw è riuscita a far reiscrivere.

 

Il risvolto geopolitico è grandioso: è la sfida a schivare la vittoria di Trump, che si ripresenta come il paladino della classe media. Stavolta non si sono fatti cogliere impreparati né il sindacato né Biden, per il quale è un ritorno alle origini: deve gli inizi della carriera politica nel 1972 ai sindacati, che gli organizzarono i comizi elettorali nel Delaware ricambiando la grinta con cui da giovane avvocato difendeva i lavoratori nelle vertenze. Poi le strade si dividono: Biden, nella sua lunga carriera, compresi otto anni da vice di Barack Obama (2009-17), si occupa di politica estera. 

 

Intanto il sindacato nel 2016 è travolto dalle mendaci promesse di Trump. Ma nulla a favore dei colletti blu accade nel quadriennio 2017-21, e così i lavoratori tornano a votare democratico. All’inizio l’alchimia però non funziona perché il Paese affronta pandemia, inflazione, guerra. Ma alla fine Biden sostiene senza esitazioni le lotte dell’Uaw, ottenendone in cambio un deciso endorsement. Non è facile fronteggiare un trend storico: «L’industria manifatturiera ha perso sei milioni di posti di lavoro dal 1980 mentre 73 milioni erano creati nei servizi», commenta Dani Rodrik, economista di Harvard. 

 

Il comparto produttivo è sceso dall’8,5 all’8,4% sul Pil con Trump, e all’8,3% nei primi tre anni di Biden. Ma il presidente punta a programmi come l’Inflation Reduction Act che vale 860 miliardi di sussidi alle imprese. «Storicamente - dice Rodrik - i lavori sindacalizzati nell’industria sono le fondamenta della classe media. La scomparsa di posti di lavoro pagati decentemente nell’industria è responsabile della crescita dei populismi autoritari». 

 

Biden tiene duro e si unisce ai lavoratori, fino a proclamare con un crescendo degno di Fidel Castro nel discorso sullo stato dell’Unione il 7 marzo: «Sono stato il primo presidente a scendere nei picchetti per chiedere la redistribuzione dei profitti delle case auto, fino a un trionfo senza precedenti». E indica all’aula il leader dell’Uaw, Fain, che si alza imbarazzato in tribuna. Il figlio dello sceriffo di Kokomo, Indiana, che aveva cominciato da elettricista alla Chrysler dichiarando: «I miliardari semplicemente non dovrebbero esistere», ora è lì, nel Congresso di Washington, a ricevere un’ovazione. «Il presidente si è comportato da vero democratico», sintetizza il politologo Ian Bremmer.

 

Biden non si ferma: il 17 aprile ha assicurato al leader della United Steelworkers Union, David McCall, che si opporrà alla cessione della Us Steel, altro monumento dell’industria americana, alla Nippon Steel, operazione in odore di licenziamenti nella siderurgia, che ha problemi ancora maggiori dell’auto. Intanto, mentre l’Uaw vinceva il referendum a Chattanooga, Biden superava Trump nei sondaggi pre-elettorali (39% contro 37): qualcosa significherà.