Interpreti del presente

Ai Weiwei: «In Occidente non esiste la libertà di espressione. Chi crede di potersi esprimere liberamente in realtà non esprime nulla»

di Sabina Minardi   16 aprile 2024

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Il ruolo scomodo dell’arte. La Cina tradizionale nel cuore. Galleria Continua dedica all’artista-dissidente una grande retrospettiva, Neither Nor. Una lezione contro gli estremismi

Tianwen, che in italiano vuol dire Domande al cielo, è un poema attribuito a Qu Yuan, il primo grande poeta cinese. Secondo la leggenda, esiliato dalla corte dello Stato di Chu, lanciò una serie di interrogativi al cielo. E li scrisse: 172 quesiti, sintesi di antiche mitologie e di modernissimi dilemmi, che raccontano l’uomo. Perché per descrivere chi siamo e in che mondo viviamo contano più le domande che le risposte. E ognuno faccia le sue: la giornalista, l’artista.

 

Ai Weiwei, tra i più grandi scultori, architetti, registi e geni della contemporaneità, attivista che di domande ai potenti ne ha fatte anche troppe, si è ispirato a quel poema tradizionale per sfidare l’intelligenza artificiale. E col suo ultimo progetto, intitolato “Ai vs Ai”, ha rivolto all’intelligenza generativa 81 domande  - quanti i giorni trascorsi in un carcere cinese nel 2011 - su vita, morte, politica, democrazia: «Se gli uomini saranno mai liberati sarà perché abbiamo fatto le domande giuste, non perché abbiamo fornito le giuste risposte», ha detto. E da qui cominciamo. Alla vigilia di una mostra-evento organizzata da Galleria Continua nella sua sede originaria, San Gimignano: una superba retrospettiva (dal 13 aprile al 15 settembre) che dell’artista di Beijing ripercorre la carriera: “Neither Not”, l’intero cinema-teatro della galleria toscana letteralmente invaso dalle opere dell’artista, a partire da quelle storiche in porcellana, legno, marmo e bambù fino ai lavori realizzati con i mattoncini Lego.

 

L'artista, designer e attivista cinese Ai Weiwei

 

«Le domande rivolte dagli uomini all’intelligenza artificiale vanno ben oltre il regno dell’Ia, perché le risposte generate dall’Ia riflettono solo una rapida assimilazione delle norme sociali prevalenti», spiega l’artista a L’Espresso, parlando da Berlino, dove vive da alcuni anni: «Cosa ho scoperto, sfidandola? Che le risposte che noi ci aspettiamo, quelle che riteniamo “corrette”, sono spesso trappole. Raramente esistono risposte realmente “corrette” al mondo. Ogni risposta serve come punto di partenza per la domanda successiva. E mentre esistono domande corrette, non esistono risposte corrette».

 

Si fa fatica a etichettare uno come Ai Weiwei, non solo per la molteplicità dei mezzi espressivi - dal cinema alla scrittura, dal design alla fotografia - ma per la piena aderenza tra arte e vita privata, visionarietà e impegno politico: provocare e denunciare lo rendono uno dei più influenti artisti di oggi. «Ci sono vari tipi di artisti e ognuno può legittimamente auto-identificarsi come gli pare. Per me, un artista che incarna un senso di responsabilità nei confronti della cultura e della storia, e che ha un impatto su di me, deve essere capace di sfidare l’ordine culturale prevalente e al tempo stesso condannare le strutture di potere che lo sostengono», prosegue: «Senza gli artisti che osano affrontare e provocare questi sistemi, non solo con il loro atteggiamento ma anche attraverso una riflessione profonda e un linguaggio provocatorio che costituisce una vera e propria tecnica artistica, l’arte fallisce la sua stessa essenza. La missione di un artista consiste nello sfidare di continuo l’ordine esistente attraverso le sue creazioni e nell’essere una forza di dissenso con le sue opere».

 

Vibrano di protesta i suoi lavori, incarnano la ribellione. Come quando, per denunciare il progressivo processo di produzione in serie della porcellana e lo svilimento di una millenaria tecnica tramandata da generazioni inondò il pavimento della Tate Modern di Londra di milioni di semi di girasole, realizzati dalle mani degli artigiani di Jingdezhen. O come nella catena di uomini e donne in cammino dall’Afghanistan al Bangladesh, dall’Iraq al Messico, che compongono “Human Flow”, l’epopea cinematografica presentata nel 2017 alla Mostra di Venezia. In memoria di brutali aborti e dell’impossibilità per le donne di una interruzione di gravidanza legale e sicura in certi Paesi, è in mostra la reinterpretazione del dipinto di Giorgione “Sleeping Venus with Coat Hanger”: alla dea romana della fertilità è aggiunta una gruccia.

 

L'opera "Sunflower seeds" di Ai Weiwei

 

Opere scomode, che inquietano. E inchiodano a riflettere. Ma se lei, Ai Weiwei, fosse accanto a noi mentre osserviamo le sue opere, cosa ci chiederebbe? «Vi domanderei se ciò che vedete è in linea con i vostri pensieri e se i pensieri corrispondono a ciò che vedete. Esperienze visive, interpretazioni intellettuali e comprensione della realtà e della Storia spesso divergono in modo significativo. La comprensione generalmente è influenzata dall’educazione e dalle norme sociali su estetica ed etica. Quando le persone vedono le mie opere d’arte, potrebbero guardarle senza vederle davvero. Potrebbero non vedere nulla o guardare oltre ciò che cerco di trasmettere».

 

Immediato, visibilmente giocoso è l’approccio a un modulo simbolo di libertà di creare: il mattoncino Lego, che caratterizza le opere di Ai Weiwei realizzate tra il 2019 e il 2023. Un mondo di storie, in mostra nelle sale al primo piano della Galleria, che raccontano l’infanzia: il solo tempo della libertà? «In effetti, l’infanzia è la fase più libera della vita umana, sia storicamente che in termini di sviluppo individuale», dice: «È un tempo della vita in cui le espressioni subiscono meno limitazioni. Nella cultura cinese c’è un idioma che descrive il linguaggio dei bambini come “senza tabù”, suggerendo che in questa fase della vita agli individui è concessa libertà di esprimersi. L’infanzia è quindi, sì, una fase relativamente libera». Una libertà che il tempo assottiglia, che le dittature soffocano. E che la sua voce denuncia. Ai Weiwei ha conosciuto l’esilio sin da bambino, quando il padre, il poeta Ai Qing, e l’intera famiglia vengono esiliati prima nel nord est della Cina, poi nei deserti dello Xinjiang. Dopo la morte di Mao, nel 1976, la famiglia torna a Beijing e lui si trasferisce negli Stati Uniti. Ritornato in Cina, contribuisce alla creazione dell’East Village, intorno al quale si riunisce la comunità di creativi. Segue la fondazione dello studio d’architettura, di Fake Design, la presenza a Kassel con un’opera in carne e ossa: 1001 cittadini invitati a uscire per la prima volta dalla Cina per partecipare alla loro “Fairytale”. Nel 2008, col team svizzero di Herzog & de Meuron vince il progetto per lo stadio nazionale di Beijing. Ma nello stesso anno, dopo il terribile terremoto nel Sichuan, accusa il governo di essersi disinteressato del rischio sismico dell’area. Pubblica i nomi delle vittime sul suo blog, che gli viene chiuso. Ma lui resta critico verso corruzione e negazione della libertà di parola: seguono la reclusione in una località segreta, il sequestro del passaporto fino al 2015, le multe. Ai Weiwei, ne valeva la pena? «L’esilio e la prigionia rappresentano processi tanto innaturali quanto necessari. Quando poeti e scrittori vengono incarcerati o esiliati significa che i loro pensieri imprigionano il sistema di potere e tutto ciò contro cui lottano. È qualcosa che vale la pena celebrare», dice mentre gli ricordiamo quanto le sue parole somiglino a quelle di molti intellettuali di oggi, da Sulman Rushdie alla Nobel iraniana Shirin Ebadi fino ai dissidenti russi: «Il potere teme l’arte e i poeti».

 

Ma la critica di Ai Weiwei non è solo verso il suo Paese, perché «ovunque risieda il potere, la censura lo segue inevitabilmente», scandisce: «La censura è la compagna del potere, il meccanismo attraverso il quale il potere afferma la propria autorità. La trappola intrinseca del potere si trova nella sua legittimazione. Che sia in Europa, in Asia o altrove, la censura esiste universalmente, variando solo nella sua estensione e manifestazione. In Occidente non esiste la libertà di espressione», dice quando gli chiediamo se fuori dal suo Paese, in Europa, si senta libero di parlare: «Chi crede di potersi esprimere liberamente, in realtà non esprime nulla. In circostanze simili, il concetto di sé si erode, rendendo la nozione di libera espressione una barzelletta».

 

“Neither Nor”, né l’uno né l’altro, in fondo questo intende evocare: il rifiuto di un panorama culturale che tende agli estremi, dove tutto è bianco o nero: «Una tendenza profondamente arretrata e preoccupante che ricorda periodi autoritari della Storia», dice l’artista. E succede anche nel mondo dell’arte, dove la tolleranza dovrebbe essere la regola, le differenze una benedizione? «Chiariamo: spesso pensiamo al presente come a un tempo di drammatici cambiamenti e transizioni, segnato dalla sfida a vecchi ordini consolidati e all’emergere di nuovi. In realtà, in mezzo a questo flusso, molti provano paura e aderiscono a una forma di correttezza politica che soffoca la discussione e l’indagine. Il diritto di porre domande viene spesso soppresso», dice: «Riguardo all’arte, io non credo che esista “un mondo dell’arte”. Se esiste, è un sottoinsieme di costruzioni sociali più ampie e, in quanto tale, non esiste uno spazio che trascenda la realtà».

 

Nelle sale di Galleria Continua rifulgono riconoscibili correnti artistiche, da lui però reinterpretate: i Lego restituiscono il vigore dei corpi in “After Rubens”, “La Gioconda” è imbrattata di torta come dopo un’azione degli attivisti ambientali; nell’ “Ultima cena” il volto di Giuda è proprio quello di Ai Weiwei. E “Un dimance après-midi à l’Ȋle de la Grande Jatte” di Georges Seurat è attualizzato con l’immagine di un rifugiato. Opere dove impegno, indignazione e anche ironia sono evidenti. E la gioia? C’è un’opera, in particolare, che la traduce? «Se ci sono momenti nella mia vita che mi regalano il sentimento della gioia, è quando mi forniscono l’ispirazione per certi argomenti e mi permettono di resistere al comune e al popolare. In quei momenti riesco ad avvertire il mio linguaggio e la mia espressione come unici, ed è il momento più felice della mia vita di artista».

 

Fonte di gioia è di certo la preziosa tradizione culturale cinese: un legame che l’artista ha coltivato con rispetto, proiettandolo nella modernità. A San Gimignano attendono il visitatore installazioni importanti come “Stools”: 3000 sgabelli collegati tra di loro, risalenti alle dinastie Ming e Qing e raccolti per villaggi della Cina del nord; “Pillar”, vasi in porcellana alti due metri; “Pick Up Stick”, il gioco dello shanghai originariamente usato per la pratica oracolare. «Lei vuol sapere cosa mi manca, oggi, della mia Cina. Ciò che mi manca di più è la sua ricchezza culturale, che in effetti è trattata quasi come uno scarto, tuttavia i resti di questo ricco patrimonio persistono ancora, penso ai manufatti storici risalenti alle dinastie Shang e Zhou (1.600-256 a.C.), tra i quali opere in bronzo e in giada e opere più mature che si sono formate dopo. Questo progresso della civiltà mi sconvolge». E un monumento al passato e alle tecniche di costruzione cinesi sarà il suo prossimo atelier, che sta realizzando nella regione rurale dell’Alentejo, vicino Lisbona.

 

«Spesso ci dimentichiamo di avere un dito medio», disse in occasione di un progetto fotografico on line, lanciato negli anni scorsi, “Study of Perspective”. Ai Weiwei, oggi a chi lo rivolge? «A me stesso. Sia per ciò che mi piace che per ciò che non mi piace, il mio dito medio è spesso rivolto contro di me».