Sfide sociali

Kyle Chayka: «Gli algoritmi approfittano della nostra pigrizia. Se non facciamo qualcosa, sarà la fine della cultura»

di Sabina Minardi   18 aprile 2024

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Vediamo tutti gli stessi film, leggiamo tutti le stesse cose, andiamo tutti alla ricerca delle stesse attrazioni. È l'effetto dei filtri, che rischiano di appiattire e standardizzare la conoscenza. «Per uscire dall'influenza delle piattaforme dobbiamo orientarci verso esperienze del mondo reale». Dialogo con il giornalista e autore di Filterworld

«Quando scrivo un’email, Gmail prevede le parole e le frasi che sto cercando di digitare e le riempie per me, come se leggesse la mia mente. Spotify mi propone i musicisti e gli album che ritiene che io voglia ascoltare. Quando sblocco il telefono, foto del passato che potrei voler rivedere, etichettate come “ricordi”, come se appartenessero al mio subconscio, appaiono sullo schermo. Instagram offre una moodboard di ciò che il suo algoritmo percepisce come miei interessi…».

 

In principio era il turco meccanico: un congegno costruito alla fine del Settecento per impressionare l’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Apparentemente era in grado di giocare a scacchi da solo, nella realtà un uomo di piccola statura si rannicchiava all’interno del mobile, muovendo gli ingranaggi. «Ultimamente penso spesso al turco meccanico, perché mi ricorda lo spettro tecnologico che infesta la nostra epoca. Uno spettro chiamato algoritmo», dice Kyle Chayka, che scrive su The New Yorker ed è autore di diversi libri sui modi in cui Internet e social media influenzano la società. Il suo ultimo saggio si intitola “Filterworld”, il mondo dei filtri, “Come gli algoritmi hanno appiattito la cultura”: un libro che ha conquistato l’attenzione internazionale e che ora, grazie a ROI Edizioni, arriva anche in Italia (nella traduzione di Sara Meddi). Più che una suggestione da distopia prossima ventura la fotografia della nostra quotidianità, bombardata da suggerimenti, pilotata nelle ricerche, indotta a scegliere ciò che vale la pena vedere, condividere, conoscere.

 

«Gli algoritmi determinano i siti web che compaiono nei risultati di ricerca di Google; le storie che vediamo nei nostri feed di Facebook; le persone potenziali partner nelle app di incontri; i film consigliati da Netflix; i video proposti da TikTok; l’ordine dei post su Twitter e Instagram; le pubblicità che ci inseguono su Internet. I suggerimenti algoritmici modellano la maggior parte delle nostre esperienze negli spazi digitali, valutando le nostre azioni precedenti e selezionando i contenuti che più si adattano ai nostri modelli di comportamento», scandisce Chayka. Basta uno sguardo alle nostre città, tra chiese improvvisamente prese d’assalto, monumenti sold out, prospettive affollatissime e locali da code inspiegabili: le attrazioni di un luogo sono quelle preferite da Booking o da TripAdvisor; la lista delle cose da fare quelle rese virali da Instagram. Tutto è servito per essere consumato visivamente. E, di nuovo, pubblicato sui social.

 

Il Wireless Festival 2023, Finsbury Park, Londra

 

Orwelliano, ma non troppo nuovo. Almeno finché non ci fermiamo a riflettere sul modo di lavorare degli algoritmi - mentre indovinano pensieri e desideri prima ancora che noi stessi ne siamo consapevoli. E sui volumi di persone coinvolte: tre miliardi di utenti di Facebook, due miliardi di Instagram, un miliardo di TikTok, 500 milioni su Spotify, 400 su Twitter, 200 milioni su Netflix. Uomini e donne ridotti in statistica, probabilità, conformità. Quotidianamente orientati - anche quando rifiutano di seguire i feed - verso informazioni mediate dai suggerimenti algoritmici.

 

Come se non bastassero art influencer, booktoker, e tutto l’universo di quei promotori che rilanciano con potenza la visibilità di un libro, di un film, di una moda (tutti compresi, influencer di noi stessi nel cercare di promuovere articoli, idee e attività, con contenuti che erodono tempo e ispirazione), la cultura destinata ad avere successo è « quella che ha una certa trazione sulle piattaforme digitali. I film che vanno bene sono quelli che hanno un seguito su TikTok; la Billboard Hot 100 è dettata da TikTok; vai da Barnes & Noble e vedi un tavolo etichettato BookTok, quello che indossiamo, quello che desideriamo è il risultato di un meccanismo algoritmico». Come un filtro fotografico che satura ed esalta certi aspetti, minimizzandone altri e rendendo popolari e mainstream certi personaggi, determinati generi, polemiche ben precise. Eleggendoli a soli fenomeni degni di attenzione.

 

E proprio questo è il punto: siamo certi che una cultura mediata non più da esseri umani - photo editor, responsabili di programmazione, dj, critici letterari - sia vera libertà? O non si rischia di distorcere l’attenzione, fino a ignorarli per sempre, fatti, scoperte, espressioni artistiche più validi e più adatti a noi? Di vivere confinati in bolle, dove tutti facciamo le stesse cose e preferiamo gli stessi divertimenti? 

 

«Penso proprio che tutto ciò sia una limitazione! È un blocco, un vicolo cieco per la società e la cultura. Perdiamo l’accesso alla serendipità e alla sorpresa, alle interazioni casuali e alla comunità su cui si è basata la civiltà umana. Perdiamo l’esperienza condivisa e collettiva della cultura».

 

Per capire che tipo di scelte incoraggia Filterworld, basti pensare all’algoritmo di Amazon Books o di Netflix: Se ti piace…ti piacerà anche quest’altro. Opzioni facili, conformiste, tendenti alla normalizzazione. E addio alla diversità, all’originalità culturale. «Normale è una parola che indica il non appariscente e il mediocre, ciò che non suscita reazioni negative. Tutti i contenuti che rientrano in questa zona di mezzo vedono una promozione e una crescita accelerata, mentre il resto cade nel dimenticatoio. Poiché meno persone vedono i contenuti che non vengono promossi, c’è meno consapevolezza di essi e meno stimoli per i creatori a produrli», nota l’autore. Insomma, o diventi virale o sei destinato a soccombere. Perché resti invisibile. Scalzato da una specie di ipnosi che rende inevitabile l’ascolto, la lettura, la visione di qualcosa, a prescindere dal fatto che sia davvero in linea coi nostri gusti. Narcotizzati procediamo per inerzia: ma non è che, se il fenomeno si è consolidato fino a questo punto, è tutta colpa della nostra pigrizia? «Sì, io credo che abbia molto che fare con la nostra pigrizia di consumatori», conferma Chayka a L’Espresso: «Imbocchiamo la strada più facile e senza attriti. Però non biasimo i consumatori, perché le piattaforme digitali che utilizziamo sono progettate per renderci pigri e passivi. Se ci fosse permesso di avere più potere negli spazi digitali, potremmo controllare i nostri gusti e le nostre abitudini di consumo. Ma l’attuale generazione di social network e di interfacce di streaming non lo consente». 

 

Così, tra rumore e velocità, l’algoritmo divora tutto. Scarta la cultura più scomoda, quella che ribalta categorie, l’arte che irrita e la scrittura che graffia. E chiede solo di essere assecondato. Con l’effetto di uccidere, a piccole tenaci dosi, il senso di stupore. Di risucchiarci e assuefarci, divorando la capacità di commuoverci, indignarci, emozionarci. È il lamento sempre più frequente dei giovani, saturi di ambienti digitali, ragazzi orientati per anni dai trend su YouTube o su TikTok, che non hanno mai sperimentato l’incontro casuale con la copertina di un libro girovagando in libreria, con un film che un amico ti ha trascinato a vedere, con una sequenza da zapping della tv pre-on demand: «Sui social non trovo più niente di interessante».

 

Lo avevano già notato filosofi come  Byung-Chul Han. “Nello sciame” esattamente questo sosteneva: che il linguaggio e la cultura, disintermediati, si appiattiscono. E proprio così s'intitolava un libro del 2005, emblematico per comprendere le dinamiche contemporanee: “The World is flat” di Thomas Friedman, “Il mondo è piatto”. 

 

Chayka fotografa ciò che è ormai realtà - a partire dalle estetiche indistinguibili dei coffee shop più amati nel mondo - e guarda oltre. Per esempio, se c’è ancora qualcosa che sfugga all’algoritmo: «È difficile. Gran parte delle abitudini di consumo come spettatori, ascoltatori o lettori sono guidate dagli algoritmi. Per uscire dalla loro influenza, dobbiamo orientarci verso esperienze del mondo reale: socializzare, girare per la propria città o magari fare la spesa in un mercato agricolo è certamente meno algoritmico. Penso che anche la cultura del fai-da-te sfugga in qualche modo all’algoritmo, come costruire i propri mobili o seguire corsi d’arte o di ceramica. Ma anche tutti questi campi hanno ormai tendenze guidate dagli algoritmi. Persino l’escursionismo!».

 

Chayka fa due esempi evidenti dell’influenza algoritmica sulla cultura: il boom della poesia, che ha imposto una generazione di Insta-poeti da milioni di follower- Rupi Kaur, per cominciare. E la tensione voyeuristica, cresciuta sui social, che spinge al successo l’autofiction di autori anche letterariamente rilevanti come Sally Rooney, Sheila Heti, Ben Lerner, Karl Ove Knausgård.Truman Show all’ennesima potenza, la tirannia dell’algoritmo non lascia scampo. Ma reagire è questione di sopravvivenza: del bello, del gusto. Ammesso che sia ancora possibile coltivarne uno. 

 

La copertina del libro di Kyle Chayka "Filterworld" (Roi edizioni)

 

«Come sviluppare un gusto personale? Prima di tutto, dobbiamo impedire che sia dettato da feed algoritmici. Perciò, invece di aprire TikTok, Instagram o Spotify, andiamo in un negozio fisico di dischi, in una galleria d’arte o in un bar. Andiamo alla ricerca di consigli direttamente da altre persone. Il primo passo è trovare una creazione culturale. Poi bisogna andare a fondo, imparare di più sull’artista, scoprire cosa lo ha ispirato, seguire la storia di un movimento musicale o artistico. È necessario leggere e documentarsi, cosa che TikTok e simili scoraggiano. Temo che la cultura non possa sfuggire a questo appiattimento, almeno fino a quando i colossi tecnologici Meta, Google e ora OpenAI, non saranno smembrati. La globalizzazione continua e accelera. Ho paura che i feed algoritmici globalizzati spingeranno sempre più persone in tutto il mondo a consumare le stesse cose e a seguire le stesse tendenze, con una conseguente omogeneizzazione. L’intelligenza artificiale rappresenta un’enorme minaccia, perché promette di automatizzare la creatività. Se l’Ia sostituirà l’artista umano, la cultura andrà persa». 

 

In realtà, una strada Chayka la indica: una forma di ribellione simile a quella che si impose negli anni Novanta da parte del movimento Slow Food contro l’agricoltura industriale. Introducendo l’importanza della ricerca della qualità, della territorialità, della sostenibilità. «Spero che sia ancora possibile. Vedo segnali di ottimismo. Rispetto al cibo è accaduto: oggi valutiamo la provenienza dei prodotti, apprezziamo i ristoranti locali. Abbiamo scoperto l’importanza dei legami di comunità. Penso che dovremmo adottare lo stesso approccio verso la cultura e prestare più attenzione a ciò che accade intorno a noi. Dobbiamo sostenere la cultura locale - arte, musica, design - nello stesso modo. Un’altra forma di difesa è la regolamentazione delle aziende tecnologiche e dei diritti sui dati, su cui l’UE sta attualmente lavorando. Al momento le aziende monopolistiche impediscono alle start-up di innovare e di raggiungere gli utenti. Ma abbiamo bisogno di più possibilità di vita su Internet. E penso che molti giovani stiano iniziando a non apprezzare i feed algoritmici: ho fiducia che il comportamento degli utenti finirà col cambiare».