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Luca Zingaretti: «Le carceri italiane sono terribili. Ma dietro le sbarre c'è l'umanità»

di Claudia Catalli   24 aprile 2024

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Gli esordi a teatro, Montalbano, il primo film da regista e ora Bruno Testori, dispotico direttore di un penitenziario nella serie “Il re”. Dialogo a tutto campo con l'attore: "Le nostro prigioni sono strutture punitive dove si vive in maniera a volte bestiale"

«Ho sempre pensato alla carriera come a un percorso lento: ho iniziato facendo teatro, stavo in piedi sul palco anche quattro ore senza dire una battuta, poi ho iniziato a dirne due, poi tre, poi quattro, alla fine i registi mi hanno notato e da lì, passo dopo passo, ho costruito il mio cammino. La vera svolta? Deve ancora venire». Con queste parole l’attore Luca Zingaretti riflette con L’Espresso sulla sua carriera e sul successo, la cui ondata dopo Il commissario Montalbano non accenna ad arrestarsi. Merito di scelte oculate, come offrirsi al pubblico in panni completamente diversi: quelli oscuri, criminali e per nulla eroici di Bruno Testori nella serie “Il re”, la cui seconda stagione è appena partita su Sky e Now.

 

Chi è il suo Testori?
«Non è un cattivo a tutto tondo, è un personaggio ricco di chiaroscuri. Direttore, o meglio monarca incontrastato del carcere San Michele, all’inizio della seconda stagione lo vediamo dall’altro lato della barricata, dietro le sbarre. Ha l’esigenza di rimanere vivo, in un contesto che ovviamente gli è ostile, e di riordinare le idee. Quando arriva in carcere un signore che propone di rimetterlo in sella non ci pensa due volte, per salvarsi dal malessere psicologico e dalle minacce concrete di certi carcerati. Chiede di riavere attorno a sé i suoi fidatissimi pretoriani e parte la seconda stagione, ricca di nuovi personaggi ed elementi».

 

Si è mai posto il problema etico di giudicarlo?
«Mai. Porto sullo schermo un servitore dello Stato che ha perso la bussola, ha fatto cose molto discutibili per cui lo condanno, ma da attore e da spettatore non posso non provare empatia per lui. Perché ha un suo senso etico, non cerca mai il benessere personale».

 

Il male è contagioso?
«La vulgata vorrebbe che sia seducente, a partire dall’amico delle medie che ti fuma vicino e ti spinge a fare qualcosa di sbagliato. A me il male non ha mai sedotto, ma vedo che la natura umana tende verso il male».

 

Le donne nella serie giocano un ruolo centrale, dalla pm interpretata da Anna Bonaiuto alla comandante degli agenti penitenziari Isabella Ragonese.
«Bisogna sempre circondarsi di personaggi antagonisti forti, l’ho imparato facendo teatro. Se poi vengono interpretati da attrici solide come loro diventa tutto semplice. È sorprendente quanto filo da torcere danno al mio personaggio».

 

Una scena della serie tv “Il re” (Sky e Now)

 

Si è fatto un’idea di quale sia, al di là della finzione, la reale situazione delle carceri in Italia?
«È drammatica, lo provano gli aumentati suicidi, non solo dei carcerati ma anche degli agenti di custodia. Abbiamo strutture inadeguate, fatiscenti, ottocentesche se non settecentesche. Strutture punitive dove si vive in maniera a volte bestiale. Manca l’idea di carcere come luogo in cui redimersi e fare esperienze rieducative per potersi reintegrare in società, eppure lo stato della cultura di un Paese si misura dal suo sistema carcerario».

 

Ha avuto modo di confrontarsi con detenuti o ex detenuti?
«Certo, mi hanno confermato che nel carcere c’è un’umanità forte. Le amicizie che nascono lì durano tutta la vita, sono esperienze dure che cementano i rapporti, non privi di gesti di tenerezza. Il primo giorno di carcere, ad esempio, trovi il letto fatto e la cena pronta preparati dai compagni di cella, perché consapevoli di quanto possa essere dura stare lì dentro. Sappiamo pochissimo delle carceri italiane, che restano luoghi terribili, sovraffollati, anacronistici e pieni di durezza. Ma anche di umanità e solidarietà enorme tra detenuti».

 

Un altro grande tema della serie è la corruzione.
«La corruzione in Italia è facile perché, non vorrei dirlo, ma insomma non ci facciamo mancare niente. Dovremmo riflettere molto sul nostro senso della giustizia e sul senso etico in ciascuno di noi, su cosa significhi una regola e cosa comporti rispettarla».

 

Parliamo della sua prima opera come regista, che tipo di esperienza è stata?
«Mi ha dato una sensazione di pienezza mai provata prima. Da dieci anni sentivo l’urgenza di raccontare una storia dal mio punto di vista. Il mio film è liberamente tratto dal romanzo “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli, una di quelle storie che mi affascinano e aprono il cuore perché consentono di intravedere una possibile soluzione ai nostri problemi».

 

Cosa ha imparato che ancora non sapeva?
«Un regista inventa un mondo e deve soprattutto dedicarsi a fondo alla psicologia umana, per misurarsi con una serie di problematiche quotidiane sul set spesso legate ai rapporti umani. Ci ho messo tanto amore e tanta energia, due anni della mia vita rinchiusi in un’ora e mezza che spero possa incontrare l’amore del pubblico».