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Sex and the spot, esplode un nuovo #MeToo nelle agenzie pubblicitarie. Ecco tutti i nomi

di Rita Rapisardi   3 ottobre 2023

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Battute, foto, ammiccamenti e avance. Sessismo e omofobia dilaganti. Da Milano a Roma a Torino, i racconti di ex dipendenti e le chat delle maggiori aziende creative rivelano che il clima di prevaricazione non è affatto un ricordo. Così si allarga lo scandalo

Se domani non mi arrestano, tutto bene». A giugno scorso, quando è esploso il Me Too della pubblicità, con la divulgazione della “Chat degli 80” dell’agenzia milanese “We are social”, molti hanno iniziato a dubitare. I big del settore si sono affrettati ad arginare lo scandalo confinando i reprobi nel recinto della «sparuta minoranza», allontanando il sospetto di un andazzo diffuso, ribattendo a colpi di codici etici e campagne su «inclusivity e diversity».

Uno che ha cominciato a interrogarsi è Vincenzo Gasbarro, già fondatore e ceo della M&C Saatchi Milano, agenzia simbolo dell’advertising che chiude contratti milionari, ingaggiando anche star di Hollywood. Gasbarro ha iniziato a chiamare allarmato ex colleghi, uomini non donne, per chiedere: «Secondo voi ho avuto atteggiamenti non consoni?». Insieme con Carlo Noseda, altro ceo e fondatore dell’agenzia, a fine giugno, è comparso a un aperitivo di ex colleghi di M&C Saatchi, un evento di solito precluso ai dirigenti. «Come va?», gli hanno chiesto. «Se domani non mi arrestano, tutto bene», ha detto all’ex collega cui aveva inflitto una pacca sul sedere alla presenza dei clienti, come racconta un testimone a L’Espresso.

 

 

Il fatto è che a giugno si è solo innescata la valanga. La chat sessista diventata pubblica e ricondotta a Was per esplicita ammissione di Gabriele Cucinella, uno dei ceo, ha acceso i riflettori anche su Pasquale Diaferia, indicato quale responsabile di molestie, chiamato in causa da un collega di quel mondo, Massimo Guastini. «Nulla da temere. tutto falso, solo invidia, mi difenderò in tribunale», ha detto Diaferia. Ma da allora molte donne hanno iniziato a raccontare di aver subito avance, commenti hot e discriminazioni. Centinaia di testimonianze su casi che coinvolgono 200 agenzie sono arrivate al collettivo Re:B (Rebellion, rebuilding rebooting), che si è dato l’obiettivo di affrancare un settore che al pari di altri è viziato da sessismo, omofobia e prevaricazioni a sfondo sessuale. Ne viene fuori una mappa che racconta un fenomeno tanto sommerso quanto esteso. Nove segnalazioni su dieci sono di donne, il 5 per cento riguarda la comunità Lgbt. La città con la maggiore concentrazione di casi è, ovviamente, Milano. Seguono Torino e Roma. Con alcune costanti e un filo comune. Come i gruppi di messaggistica a contenuto sessista.

 

«La chat esiste in tante agenzie, in molte è arrivata grazie a ex lavoratori di Was che l’hanno esportata», spiega a L’Espresso un’ex dipendente. «Ci sono arrivate segnalazioni per una quindicina di chat sessiste, ma potrebbero essere molte di più», fanno sapere da RE:B.

 

I racconti sul conto di Gasbarro si moltiplicano. Al punto che «fare una gasbarrata», nello slang della pubblicità, equivale a indicare qualcosa di inappropriato. Approdato al mondo delle campagne dopo gli esordi come animatore che ha cementato un rapporto di amicizia con Fiorello, Gasbarro è un creativo «sempre sopra le righe», dice di lui una ex collaboratrice. Ricorda a L’Espresso quando «lanciava palline di carta nella scollatura di una collega prosperosa». O si lasciava andare a contatti fisici non richiesti conditi con «battute sessiste e omofobe. Alla vista di una collega disse: me la leccherei tutta. Per lui era un gioco. Per farsi approvare qualcosa, o anche solo per essere ascoltati bisognava fare le ochette ed essere sempre in tiro. Del resto, solo se sei bella ti portano in riunione, che è il modo di emergere».

 

In Saatchi le grandi feste non sono mai mancate, quelle di Natale le più famose. Centomila euro per portare l’ufficio a Londra o riservarsi lo Shatush Mont Blanc di Courmayeur. Cena, discoteca «e anche qualche svago, procurato da un producer, per chi gradiva», racconta chi vi ha partecipato.

 

Al pari di altri ambienti di lavoro anche il mondo della pubblicità, pur fondandosi sulla divulgazione di messaggi positivi e inclusivi, ha una forte impronta maschile caratterizzata da una spiccata competizione e un cameratismo al limite della compiacenza. E così anche quando si rimane lontani da comportamenti che impattano con il codice penale, il sessismo sembra essere una cifra ricorrente. Che, ovviamente, si stenta a riconoscere e ad ammettere. Per molti è il prezzo da pagare pur di lavorare nell’empireo dell’eccellenza nella quale si colloca M&C Saatchi – nel 2020 “Agenzia del decennio” agli NC Digital Awards – o We are social.

 

Dopo anni in cui ci si è concentrati sulla necessità di invertire la rotta sui contenuti della pubblicità in quanto a rappresentazione della donna, ci si accorge che certi atteggiamenti combattuti all’esterno, sono difficili da arginare all’interno. Così, dipendenti-vittime soggiacciono a un clima in cui molestie, “battutine”, accanto a turni massacranti vanno accettati per il prestigio e la carriera.

 

«Brutalità di pensiero significa partner brutalmente onesti», è il motto di M&C Saatchi Milano. Campagne estreme, geniali, fuori dall’ordinario, soprattutto nel campo automobilistico. Da fuori un luogo ambito. Dietro le quinte il punto di vista cambia, dice a L’Espresso chi in quel mondo ha vissuto. «Un certo modo di pensare è duro a morire se nel 2021 il solito Gasbarro, per la campagna sulla Formula 1 della moda, come massimo di creatività pensava a delle ombrelline in abiti succinti». Molte delle produzioni di M&C Saatchi come la campagna per la serie televisiva Games of Thrones, sono state realizzate in Romania. Una scelta non legata soltanto a location e costi ma anche al contorno di divertimento extra: «Parliamo di cene eleganti durante le trasferte e la cosa era così normale che la stessa casa che si occupava del materiale per girare gli spot, la Basement di Milano con sedi a New York e Londra, si assicurava che fossero organizzate», conferma al nostro settimanale una fonte interna. Basement, che non è stata tirata in ballo in riferimento alla Romania, precisa di non aver mai svolto lavori in quel Paese  e tiene a dire di non aver mai allestito le "cene eleganti" di cui parla la fonte.

 

Tutti sapevano, pochi parlavano. Agli albori di questo Me Too della pubblicità, lo ha confermato indirettamente Silvio Meazza, cofondatore di M&C Saatchi: «Per quanto mi riguarda ho da espiare 25 anni senza avere mai detto a un collega: adesso basta», ha scritto su Linkedin.

 

Lo scandalo è solo un detonatore con propagazione degli effetti a catena. Alla pubblicazione dei primi stralci della chat di Was, in Havas Milano, sono corsi a cancellare la propria, temendo che le anticipazioni li riguardassero. Viaggiava su Skype e riguardava solo il reparto digital ma i contenuti non erano diversi. «Ero arrivata da un mese e degli junior mi hanno fatto una foto di nascosto mentre guardavo lo schermo di un pc appoggiata alla scrivania. Subito era stata condivisa sulla chat. Mi hanno detto che io mi ero messa in quel modo provocante», spiega a L’Espresso una delle protagoniste suo malgrado.

 

Anche in Havas si festeggia il Natale. Con una cena a inviti, solo maschi ed eterosessuali, niente stagisti, solo senior e director, da tenersi prima di quella aziendale. La convocazione arriva per mail e fino a pochi anni fa se ne occupava l’attuale ceo, Manfredi Calabrò, all’epoca account director, oggi rappresentante di Una, Aziende delle Comunicazione Unite, con 216 agenzie aderenti, al Consiglio generale di Confindustria Intellect.

 

Durante l’occasione conviviale capita che, tra l’altro, le donne del team vengano sottoposte a un giudizio di valutazione, stile concorso di bellezza trash con categorie molto particolari. «Le fasce da assegnare sono “la più porca” o “la più scopabile”. E per raccogliere i punti bisogna rispondere a domande tipo "la migliore per fare la pecorina sulle stampanti". Alla fine si elegge la vincitrice», racconta un insider. Nulla di troppo segreto, visto che chi ottiene il titolo viene avvisata il giorno dopo. La celebrazione dell’evento richiede preparazione. I partecipanti vi dedicano un anno, durante l’orario di lavoro, creando delle moodboard, di solito usati nei progetti, album fotografici delle ragazze con scatti appositi o tratte dai social. Tutte le neoassunte passano per la selezione con tanto di avviso alle interessate dell’avvenuta inclusione.

 

«La partecipazione alla cena è volontaria, ma in molti, anche padri di famiglia, partecipano. La vivono come un momento di team building maschile, ma se rifiuti di partecipare sei espulso dalla chat», riferisce un’ex dipendente: «Un giorno smetti di essere una collega e diventi carne da macello, un oggetto sessuale. Ogni giorno pensavo a come vestirmi per sfuggire a tutto questo». Stando ai testimoni la cosa va avanti da anni. «Della chat ci sono prove già nel 2012, si è sempre fatto così e te la fai andare bene, anche per paura».

 

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Resta aperta invece la chat analoga di Across, una web agency di medie dimensioni con sede nel centro di Torino. È su Whatsapp e si chiama esplicitamente “Scopareeee”. Lo spirito è sempre lo stesso: commentare le colleghe, mandare foto di donne mezzo nude, rubare scatti alle più carine dell’ufficio. E con spirito analogo esiste pure la squadra di calcetto che, creativamente, si chiama Ss Orca. Volendo, è anche l’anagramma di Across.

 

In passato ce n’era un’altra su Skype, “Amici di figa” e, a differenza dell’altra, viaggiava sui computer dell’ufficio. La chat aziendale è stata chiusa nel 2020 poco prima del Covid. Determinante l’iniziativa di una stagista che ha segnalato la cosa non senza prima averne chiesto la cancellazione. Con una reputazione in ascesa e cento dipendenti, Across ha accolto il consiglio della responsabile delle risorse umane Silvia Virginia Di Liberto: così all’improvviso, dalla chat sono scomparsi i capi ed è caduta nell’oblio. Ma senza alcuna conseguenza per i responsabili. Nessuna iniziativa invece per la comunità che si ritrova su Whatsapp.In entrambe figurava il fondatore e ceo dell'azienda, Sergio Brizzo, che nel 2011, a 22 anni, ha dato vita a quella che si definisce una realtà «giovane e dinamica» ed esibisce sul proprio sito una montagna di riconoscimenti che ne potenziano il valore.

 

«Guarda, si vede il perizoma sotto il vestito bianco», ha comunicato al gruppo Brizzo riferendosi a una collega. «Basta mi dimetto, non si può lavorare così», ha commentato il direttore commerciale Edoardo Marrone riferendosi a un’altra di cui si vedevano i segni dell'abbronzature. A un terzo, in ferie, che chiedeva prove, è subito arrivato un video.

 

 

«Essere oggetto di quella chat appena arrivati in agenzia legittimava tutti, anche l’ultimo degli stagisti a trattarci con meno riguardo e a prendersi libertà», dice a L’Espresso una che è passata per oggetto di quelle conversazioni.

 

Perché se in altre realtà le chat erano riservate a una selezione di dipendenti, in Across tutti sapevano, perché, come in un rito di iniziazione, i maschi venivano aggiunti già a partire dal periodo di formazione. E c’era poco da nascondere visto che il ceo ne faceva parte e la finestra rimaneva aperta sui computer aziendali.

 

Anche qui «sondaggi sulla più scopabile, sulle più belle tette e culo dell’azienda», riferisce un’ex interna. Voti su una scala da uno a dieci e foto. Di tutte, tranne di chi era legato a membri dello staff. Così erano circolate anche le foto intime di una collega che aveva una storia con un dipendente di Across. Ma lei era di un’altra agenzia. A fine estate, una galleria di colleghe in costume, scavando sui profili social. Racconta ancora al nostro settimanale una che c’è passata: «Per anni, proprio per sfuggire a quelle attenzioni, mi sono vestita come un sacco di patate, ho smesso di truccarmi e di andare dal parrucchiere. Un cambiamento radicale che le mie amiche non hanno fatto a meno di notare. D’altra parte, tutto era all’insegna del sessismo. Se qualcosa non andava bene era colpa di noi frigide che dovevamo prendere più cazzi». La chat su Whatsapp ancora oggi attiva, comprende dipendenti che non lavorano più in Across.

 

E per gli Lgbt era anche peggio: «Tu non sei come noi, sei frocio». Così il direttore commerciale di Across a un dipendente che ha accettato di parlare con L’Espresso. 

 

Con una lunga nota, Across ha ribattuto alle tesi sostenute dalle fonti, prendendo le distanze da chat e iniziative svolte da dipendenti al di fuori dell'azienda. Il ceo Brizzo chiarisce anche «che in passato era stato aggiunto alla chat (di whatsapp, ndr) da persone terze, ne è uscito volontariamente condannando e dissociandosi da quel genere di contenuti e affermazioni».  

 

«Across - spiega la nota - ammette con trasparenza e profondo dispiacere l’esistenza in passato di una chat presente sui sistemi aziendali – la piattaforma Skype, precisamente – in cui venivano condivisi commenti inappropriati». Secondo Brizzo la faccenda non sarebbe caduta nell'oblio ma «ha convocato una riunione ufficiale con tutti gli appartenenti alla chat in cui ha comunicato la chiusura e ha diffidato chiunque a reiterare quel generare di comportamenti sul luogo del lavoro». Across nega inoltre episodi di discriminazione o sessismo citando anche un'indagine interna alll'azienda sul gradimento da parte dei dipendenti. 

 

Brizzo conclude: «Come fondatore e ceo di Across voglio scusarmi profondamente per quanto accaduto in passato nella chat aziendale, è stato un grave errore di cui mi sono già assunto le responsabilità e di cui mi scuso. Dalla comprensione della gravità di quanto accaduto, ho impegnato tutte le energie e le risorse della società per costruire un luogo di lavoro sano, positivo e inclusivo».

 

Gli episodi che hanno riguardato Across non sono diversi da quelli verificatisi in altre aziende: «Tanto tu conosci tutti i cazzi della provincia», ha detto il ceo di un’azienda del Veneto. Nell’ex Razorfish, ora Nurun del gruppo Pubblicis, è accaduto invece che durante il colloquio di ingresso si investigasse sui gusti sessuali degli esaminati perché l’agenzia teneva a essere «l’unica agenzia di Milano senza omosessuali». Così si è vantato il capo dell’ufficio dell’epoca Marco Barbarini. «Una manifestazione piena di froci e lesbiche, cosa hanno da mostrare?», è sbottato un giorno, racconta un suo ex collaboratore. E durante una notte di lavoro in agenzia ha dato i voti a suo modo alle neoassunte: «Che bona, glielo infilerei qui, quell’altra è un cesso non la scoperei neppure con un sacchetto in testa». A una collega che ha obiettato avrebbe ribattuto: «Tranquilla, tanto sei tu che hai il culo più bello dell’agenzia».

 

In Leo Burnett un’agenzia tradizionale, vecchia scuola, con sede a Milano e Torino, il client director amava far comparire peni sul desktop delle stagiste mentre erano in bagno. Talvolta venivano mandati film porno sul pc a tutto volume durante l’orario di lavoro. Goliardate? Non dal punto di vista delle donne. E anche molestie verbali a raffica: «Quando facciamo sesso io e te?», pacche sul culo, commenti continui alle account, le più tartassate. E tanta allegria disinibita alle feste, a beneficio dei clienti. «Dal primo giorno capisco, mi sento subito fare dei commenti sulla gonna corta e reagisco. Il terzo giorno ricevo un messaggio da uno dei colleghi, uno del digitale che chiama le ragazze prosciuttine riferendosi alla linea. Se continui a essere così ruvida, mi scrive, rimarrai da sola, se la gente fa certi commenti, lo fa per scherzare. Per un periodo ho smesso di mangiare», rievoca con il nostro settimanale una ex dipendente.

 

Uno dei manager più influenti nell’industria della comunicazione italiana è Giorgio Brenna, già ceo di Leo Burnett, una collezione inarrivabile al festival della creatività di Cannes. I suoi modi rudi sono proverbiali nella ricostruzione a L’Espresso di chi ha potuto stargli vicino: «A una collega con un braccio fasciato chiese: “Cos’è successo? Ti ha menato il fidanzato? Ha fatto bene”. Il superiore le ha detto: “Lui ci paga lo stipendio, bisogna stare zitti, magari copriti di più, sorridi, l’azienda cresce”. Molte hanno lasciato, firmando accordi di riservatezza e ricevendo una buonuscita». Sudditanza. Che qualcuno come Gianpietro Vigorelli, teorizza. Si dice che non assumesse donne perché non avrebbe potuto picchiarle. Ma su un’intervista passata per YouTube ha corretto: «Le donne le picchiavo, ma solo quelle brutte». E, in un’altra: «Anche lo stagista lo umiliavo subito, così capiva, altrimenti andava a fare il parrucchiere». E a sentire lui ha funzionato: «Oggi infatti sono tutti direttori creativi». E tutti maschi.

 

L’Espresso ha contattato le agenzie coinvolte ma nessuna ha voluto confrontarsi nel merito delle ricostruzioni degli ex dipendenti, disconoscendole. Sulle cene, Havas precisa che non rientrano nelle attività aziendali. Tanto M&C Saatchi che Gasbarro hanno inviato, separatamente, una diffida alla pubblicazione. L’agenzia ricorda di aver adottato un codice etico e messo al lavoro una task force contro le discriminazioni, Gasbarro si dice pronto a esibire le testimonianze di quanti hanno lavorato con lui e non hanno mai eccepito nulla sul suo comportamento. Nè, tantomeno, è mai stato raggiunto da alcuna comunicazione giudiziaria. Come, del resto, sostengono anche gli stessi testimoni, interessati a raccontare un clima e non reati. Con l’obiettivo di promuovere un cambiamento di passo nelle relazioni di lavoro. Anche nel mondo patinato della réclame.