Inchiesta

L'assalto della Destra alla cultura: ecco tutti i nomi che Meloni e soci hanno piazzato nelle poltrone che contano

di Sabina Minardi   2 febbraio 2024

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Istituzioni del teatro, del cinema, dell’arte, dell’editoria. In Rai. A dispetto di tutto e di tutti. Per Fratelli d'Italia mettere i fedelissimi ai vertici di tuti i settori creativi è una vera ossessione. Ma l’egemonia è un’altra cosa

Il compositore Ottorino Respighi non volle mai iscriversi al Partito Nazionale Fascista. Ma c’è poco da fare: i suoi poemi sinfonici dedicati ai Pini di Roma, quelli di Villa Borghese e del Gianicolo, della via Appia e presso una catacomba, eseguiti oggi sprigionano un patriottismo innegabilmente citazionista. E omaggiano un simbolo di quell’Italia fascista che piantò pini, appunto, dappertutto, da Ostia alla Maremma: «L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive erano contornate da pini», ha ricordato Marcello Veneziani in un articolo contro i pinicidi (La Verità). Perché se è vero che oggi gli alberi, con quelle radici così invasive da dissestare strade, non se la passano tanto bene, a cogliere lo Zeitgeist sarebbe bastato, a ottobre scorso, “Roma”, il concerto inaugurale della Stagione sinfonica di Santa Cecilia: con la bacchetta di Iván Fischer a destreggiarsi tra alberi, fontane e nostalgia di feste capitali.

 

Azzerare tutto. E ricominciare da destra: coi plenipotenziari di Giorgia Meloni schierati a raggiungere il massimo risultato. Federico Mollicone, per cominciare: presidente della Commissione Cultura della Camera. Indimenticabile quel sostantivo col quale definì i piccoli editori, intervenendo all’ultima edizione della Fiera Più Libri Più Liberi: “sottobosco”. Meraviglioso e multicolore certo, ma sufficiente a raggelare la permalosa comunità del libro, tutt’altro che umbratile e marginale.

 

È lui il grande artefice della nomina del regista Luca De Fusco a direttore del Teatro di Roma: con il solo voto dei consiglieri di amministrazione nominati dal ministero della Cultura e dalla Regione Lazio, però. Senza tener conto dell’assenza del presidente Francesco Siciliano e della consigliera Natalia Di Iorio scelti dal Comune. Comune che contribuisce alla dotazione della Fondazione con 6 milioni di euro, a fronte di una quota regionale di 1,1 milioni di euro. E così, nella stessa giornata in cui il presidente Sergio Mattarella ricorda che «la cultura non sopporta restrizioni o confini, pretende il rispetto delle opzioni di ogni cittadino, respinge la pretesa di indirizzare le sensibilità verso il monopolio di un pensiero unico», sabato 20 gennaio si consuma uno dei più brucianti strappi della destra al potere. Che darà vita a un inevitabile ginepraio giuridico. «Un incontro abusivo», urla l’assessore comunale alla Cultura Miguel Gotor; «un grande atto di arroganza», aggiunge il sindaco Roberto Gualtieri, che parla di «prepotenza politica». «Un grave colpo al rapporto di lealtà e al rispetto istituzionale che legano il teatro della capitale alla città», scrivono tanti artisti, da Matteo Garrone a Fabrizio Gifuni.

 

Luca De Fusco

 

Ma quel modo di fare, rapido, chirurgico e in spregio dei primi cittadini, è diventato un metodo: se continue sono le scintille tra il sindaco di Firenze Dario Nardella e il ministro della Cultura – dal presente degli Uffizi al futuro del Maggio Fiorentino – di destra prepotente, che agisce contro la volontà del Comune, ha parlato anche il sindaco di Verona Damiano Tommasi, costretto a subire la riconferma della Sovrintendente della Fondazione Arena di Verona, la soprano Cecilia Gasdia. In quel caso, architrave dell’operazione è stato il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi. Che più di recente, in replica a un’interrogazione parlamentare sul mancato rinnovo di Marino Sinibaldi a presidente del Centro per il Libro e la Lettura, ha scandito le intenzioni: «Vogliamo liberare la cultura, fare entrare aria fresca. E se questo non vi piace, dovete farvene una ragione perché è quello che intendiamo fare».

 

Della serie, aria fresca: Alessandro Giuli, già giornalista di Libero, ex militante di Meridiano Zero, autore di opere sull’identità postfascista e il culto di Cibele, presidente del Museo Maxxi di Roma. Geronimo La Russa figlio di, nel Cda del Piccolo, teatro che con la Scala rappresenta la massima istituzione milanese: «Decisione legittima, non posso che accettarla», commentava il sindaco Beppe Sala: «Almeno però le nostre scelte hanno sempre indicato persone con un percorso nell’ambito culturale certificato». Angelo Crespi, dal Maga, il museo di arte moderna e contemporanea di Gallarate, alla Pinacoteca di Brera in sostituzione di James Bradburne. Alessandra Necci, autrice di biografie e romanzi storici, neodirettrice delle Gallerie Estensi di Modena, Ferrara e Sassuolo e della Pinacoteca nazionale di Ferrara. Adriano Monti Buzzetti Colella, nominato al posto di Marino Sinibaldi al Cepell, appassionato di Clark Ashton Smith, Theodore Sturgeon, H. P. Lovecraft. E soprattutto di J. R. R. Tolkien, faro di questa destra al potere. Tanto da essere protagonista di una mostra-monstre: curata da Oronzo Cilli con Alessandro Nicosia. Costata 250 mila euro. E organizzata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dinanzi a una direttrice, Cristiana Collu, ormai agli sgoccioli del suo brillante mandato, costretta ad aggrapparsi a Donna Haraway, al filosofo Hans Blumenberg e pure ad Albert Camus per esorcizzare lo sgomento che la critica esprimeva apertamente. In Italia (“Cosa c’entra Tolkien con la Galleria Nazionale”?, Insideart) e all’estero (l’Italia piega Tolkien a fini nazionalistici, hanno scritto Politico e The Guardian). Giorgia Meloni in persona, uscendo dalla visita, ha preso la parola: «Stupiscono le polemiche dei soliti noti sull’organizzazione della più grande mostra mai dedicata in Italia all’autore di uno dei libri più venduti e amati della storia della letteratura. Dimostra il nervosismo di chi ha pensato che la cultura gli appartenesse, che potesse essere appannaggio di una parte politica e non di tutti. Quel tempo è finito».

 

Geronimo La Russa

 

È finito il tempo dei “feudi della sinistra”. In effetti anche Raffaele Speranzon di Fratelli d’Italia l’ha detto espressamente alla nomina di Pietrangelo Buttafuoco a presidente di una delle più internazionali e complesse macchine culturali del Paese, la Biennale di Venezia (solo quella d’Arte, nel 2022, ha chiuso con 800 mila biglietti venduti). E chissà se Buttafuoco, il raffinato demiurgo dell’universo culturale di Meloni, non abbia avuto, longanesiamente, l’impulso di piantargli una mano in bocca: “Taci! Il nemico ti ascolta”.

 

Ma che Palazzo Chigi sia impegnato in una sistematica, capillare demolizione e ricostruzione culturale è sotto gli occhi di tutti. E ammettiamolo: è prevedibile che idee, valori, miti, espressioni di chi governa vadano in cerca di rappresentatività nei luoghi che li traducono in progetti e consumi culturali. Non lo sono le spallate, gli strappi e, in cultura specialmente, le sostituzioni di competenza ed esperienza, necessarie a un Paese dove la cultura è materia prima su cui investire, basate solo sulla logica della non appartenenza politica.

 

È stata costretta a dimettersi anzitempo dal Centro Sperimentale di Cinematografia, per effetto di un emendamento al cosiddetto decreto Giubileo che rimette al governo la scelta dei vertici, Marta Donzelli. E mentre studenti e cineasti protestavano, da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino, parlando di «violenza e rozzezza per far fuori la dirigenza», il Ministro esultava: «Volevamo elevare la qualità e lo abbiamo fatto». Con Sergio Castellitto, neopresidente: che se non è uomo di destra, con la sinistra di certo ha spesso polemizzato. Al Torino Film Festival, al posto di Steve Della Casa, è andato Giulio Base, «scelta avvenuta esclusivamente valutando i meriti del candidato e non in alcun modo condizionata da valutazioni esterne», ha dovuto precisare il presidente del Museo del Cinema Enzo Ghigo, mentre il regista con imbarazzo si difendeva dalle polemiche: «Ho letto cattiverie sul mio conto, ma sono stato scelto per i miei meriti». Certo il cinema è tassello fondamentale per promuovere una cultura di destra. Come può il ministro o un suo delegato (magari la sottosegretaria Lucia Borgonzoni) assicurarsi un posto nell’Accademia che decide sui David? Il capo della Direzione Cinema e Audiovisivo Nicola Borrelli ha scritto alla presidente Piera Detassis chiedendo uno modifica allo Statuto, atto pericolosissimo per l’indipendenza dei Premi.

 

«La destra vuole prendere, però a livello di gente, di artisti, di idee, di fantasia, ne ha poca», dice il regista Marco Bellocchio, senza troppo girarci intorno. E strappa l’applauso a Propaganda Live insistendo: «La bellezza? La novità? La libertà non può andare con Sangiuliano, non c’è…rapporto». Altrettanto chiaro Roberto D’Agostino, a Piazzapulita: «Siamo passati dall’inossidabile amichettismo di sinistra alla logica dell’appartenenza alla destra. Non è una scelta sul merito dei personaggi e degli intellettuali che possono ricoprire delle cariche», dice suggerendo alla premier quel termine – amichettismo – che ora ripete di continuo. Francesco Giubilei, ex consigliere del ministro Sangiuliano e presidente della Fondazione Tatarella, ha teorizzato la strategia nel saggio “Gli intellettuali di destra e l’organizzazione della cultura” (Oligo): «Per tutto il Novecento è mancata una politica culturale di destra. La sfida è ora un’organizzazione che vada in direzione della promozione di idee, valori e figure che appartengono al mondo conservatore. Con due modalità di azione: lo spoils system e dando attenzione alle attività di fondazioni, think tank, editori, riviste, che in questi anni hanno contribuito a creare un substrato di valori che sono serviti a permettere un cambio di rotta al Paese».

 

Nell’organigramma del potere di destra una delle donne più di spicco, benché consideri il genere femminile «discriminatorio» per una che ha studiato pianoforte, composizione e direzione d’orchestra come un uomo, è la consigliera per la musica del Ministro, Beatrice Venezi. Che potrebbe andare al vertice della Biennale Musica, o a dirigere almeno un paio di teatri d’Italia, anche se da Palermo gli orchestrali della Sinfonica le hanno indirizzato pesanti critiche.

 

Beatrice Venezi

 

Nulla si sa, invece, della Quadriennale di Roma il cui presidente, Umberto Croppi, è scaduto il 15 settembre scorso: pur essendo figura proveniente dalla destra, nessuna proroga è entrata in vigore. E senza un consiglio d’amministrazione, senza un bilancio preventivo, tutto è fermo. Sono saltati accordi e iniziative con l’estero. E ancora oscuri restano curatore e progetti della mostra prevista per il 2025. Grande fermento, al contrario, dietro le quinte della Scala. Manca poco alla scadenza del sovrintendente Dominique Meyer. Il sindaco Sala ha già detto che «tutti i consiglieri hanno sempre espresso giudizi positivi su Meyer. Per cambiarlo bisogna trovare un’alternativa solida». Ma su di lui incombe il “decreto Lissner” che fissa a 70 anni il pensionamento dei vertici dei teatri lirici: nel caso del Teatro San Carlo di Napoli i giudici hanno ordinato il reintegro del sovrintendente francese. Ma se la Consulta non si pronuncerà prima per l’illegittimità costituzionale, Meyer non sarà confermabile. L’alternativa che piace a destra si è fatta strada: circola il nome di Fortunato Ortombina, sovrintendente del teatro La Fenice di Venezia.

 

La più grande industria culturale del Paese, l’editoria, tiene gli occhi puntati su Mauro Mazza, Commissario Straordinario per la Buchmesse di Francoforte, dopo le dimissioni di Ricardo Franco Levi: occasione importantissima per incrementare l’export dei nostri libri, per dare ossigeno al mondo delle traduzioni, per promuovere i nostri autori, per proiettare all’estero la nostra cultura. Con idee forti e scelte autorevoli. Non con lo spettacolo di una corsa a occupare poltrone, accaparrarsi ruoli chiave, attribuirsi miti e avi nobili: a imporre la voce del potere. La cultura italiana mai se ne farà una ragione.