Eredità contese

Dal mito al profitto: tutti vogliono mettere le mani sul tesoro di Diego Armando Maradona

di Gianfrancesco Turano   12 aprile 2024

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Più redditizio da morto che da vivo, il mito del calcio mondiale è una macchina che vale centinaia di milioni. Le imprese internazionali fanno a gara per sfruttarne il marchio. Ma fra i suoi eredi e procuratori è rissa dall’Argentina all’Italia passando per Dubai

Diego è mille colori. Lo è nel culto delle reliquie in piazza Medina e per le traverse di via Toledo che salgono verso il murale di via Emanuele De Deo, ribattezzato Largo Maradona. È la Napoli anni Ottanta, quando lo vedevano a distribuire cappotti al posto della guardarobiera al Cachaça di via Petrarca. Diego è il santo peccatore senza mai un euro in tasca, a rischio di incolumità fisica per l’assalto dei devoti ogni volta che esce per strada. È il papa sudamericano prima di Bergoglio con le adunanze oceaniche in piazza a Caracas, centomila vestiti di rosso e lui accanto all’autocrate Nicolás Maduro che gli aveva affidato un programma tv su Telesur, “de zurda”, cioè di sinistra nell’idea politica e nel tocco di palla, perché si sa che a Maradona la destra serviva solo per camminare. Diego è l’ambasciatore del Mondiale russo del 2018 che riceve in regalo un’autoblindo dell’Armata Rossa incartata e infiocchettata. Diego è il commensale che riesce a smuovere l’emotività artica di Vladimir Putin. È il dilapidatore di se stesso e delle sue fortune che parte per l’Azerbaijan perché un oligarca locale gli ha promesso un milione di dollari se viene a mettere una firma. E lui va ma ci resta male perché gli fanno autografare un quadro anziché la maglietta numero dieci del Napoli che ha messo in valigia. Così ci avvolge le banconote e se la riporta a casa.

 

Diego che non può tornare in Italia perché deve una quarantina di milioni al fisco per non essersi presentato in commissione tributaria a chiarire la sua posizione con i compagni brasiliani Careca e Alemão. Diego nella sua villa di Dubai che passa il tempo a dormire, stonato da droghe, alcol e psicofarmaci, che litiga con i familiari e che sfrutta i momenti di lucidità per espellere qualcuno dei parassiti di cui ama circondarsi, salvo perdonarlo poco dopo. Diego che va in Messico per allenare i Dorados di Culiacán, nel quartier generale del cartello di Sinaloa. Infine, Diego a Tigre, cittadina di villeggiatura sull’estuario del Paraná, chiamata così perché ci ammazzarono l’ultimo giaguaro dell’Argentina, come annuncia con orgoglio una targa nei pressi dell’imbarcadero. Diego è il 25 novembre 2020 quando muore e diventa immortale, anche se i giudici non credono alle resurrezioni e dal prossimo 4 giugno celebreranno un processo per omicidio contro otto operatori sanitari che si prendevano cura del Diez, il numero dieci per antonomasia.

 

In quanto a giustizia post mortem, l’Italia ha voluto contribuire con una sentenza della Cassazione che nei primi giorni del 2024 ha assolto il fu Pibe de Oro dall’accusa di evasione fiscale nata ai tempi dei due scudetti napoletani, quando i grandi club di serie A pagavano i diritti di immagine dei loro stranieri estero su estero per eludere le tasse. Alla fine di questo braccio di ferro, all’ex capitano del Napoli furono sequestrati un Rolex e gli orecchini di diamante per 15 mila euro di valore.

 

Gruppo di famiglia e di amici

 

Sul piano dell’etica tributaria, se esiste, che Diego Armando Maradona fosse un evasore non gliene fregava nulla a nessuno da prima del verdetto della Suprema corte. Il suo nome resta un moltiplicatore commerciale con pochi uguali sul pianeta, perché la passione, la devozione, la religione sono una macchina da profitti fin da quando si commerciavano le reliquie dei santi. L’eredità che si lascia alle spalle si può stimare intorno ai 100 milioni. Il valore della sua immagine è incalcolabile.

 

Nessun calciatore ha o avrà il potenziale economico di Maradona. Né Cristiano Ronaldo né Neymar, men che meno il connazionale Leo Messi, tanto fenomenale in campo quanto privo di carisma extrasportivo. Fuori dal calcio c’è un altro boomer diventato un marchio planetario. È il cestista Michael Jordan. Ma quello è “yanqui”, è Stati Uniti, è tutto quello che Diego odiava nel suo guevarismo anarcoide. Peccato che le leggi le detti il capitalismo. Maradona vuol dire profitti sia per chi ha diritto a sfruttarne il nome sia per chi non ce l’ha. E la spartizione di questo fiume di denaro fra eredi e manager riflette la vita disordinatissima del Diez.

 

Maradona ha avuto cinque sorelle e due fratelli, entrambi calciatori. Da vivo ha riconosciuto cinque figli. In ordine di venuta al mondo, il primo è Diego junior, nato a Napoli da Cristina Sinagra nel 1986 e legittimato solo ventuno anni dopo. Nel 1987 è nata Dalma Nerea e nel maggio 1989 Dinorah Gianinna. La loro madre è Claudia Villafañe, sposata a Buenos Aires sei mesi dopo la nascita della secondogenita a novembre del 1989, durante la stagione calcistica in cui il Napoli ha vinto il suo secondo scudetto. Da relazioni più recenti sono arrivati Jana nel 1996 e Diego Fernando nel 2013. Sarebbero in corso almeno altre due cause di riconoscimento con il sistema del Dna e si parla di altri figli avuti nel periodo in cui l’ex campione svernava nella Cuba dell’amico Fidel Castro.

 

La situazione attuale dei marchi, esclusi quelli fasulli, si può riassumere così. L’ex moglie Claudia, che ha iniziato la separazione da Diego nel 1998 fino al divorzio nel 2003, ha depositato il marchio Ue “Diego Maradona” il 9 luglio 2001 e lo ha registrato l’8 gennaio 2003 a protezione delle due figlie: Dalma, che fa l’attrice e ha debuttato il 24 marzo su Discovery+ con un documentario in tre puntate sul padre, e la designer Gianinna, ex moglie del nazionale argentino Sergio “el Kun” Agüero e quasi moglie di Pablo Daniel Osvaldo, argentino con 14 presenze nella nazionale italiana.

 

Maradona con l'ex moglie Claudia, la figlia Dalma Nerea e la figlia Dinorah Gianinna

 

Una svolta decisiva è arrivata l’11 giugno 2015, quando l’avvocato Edgardo Matías Morla ha costituito a Buenos Aires la società anonima Sattvica, nome ispirato dal sanscrito Sattva (purezza, luce, saggezza). Morla, che al tempo aveva 36 anni, ha ottenuto dal campione una procura per lo sfruttamento 50/50 di una decina di marchi legati al nome di Diego. L’influenza di Morla su Maradona è tema di dibattito quasi quotidiano sui media argentini. Di sicuro, Diego si fidava ciecamente di lui al contrario di quanto faceva con i suoi familiari, tanto da riscrivere il testamento il 26 dicembre 2015 con l’esclusione dell’ex moglie Claudia e delle due figlie, salvo la legittima.

 

Oggi Morla ha intestato Sattvica a una delle sorelle di Diego, Rita detta Kitty. La società con sede a Buenos Aires ha nel suo patrimonio quattro marchi registrati all’Inpi (Instituto nacional de la propiedad industrial): Maradona, Diegol, la Mano de Dios e El Diez.

 

Oltre ai quattro marchi di Morla ce ne sono due controllati dal suo ex socio italiano Stefano Ceci: D10S e la silhouette di Maradona che corre. I ricavi di Ceci, anche se prodotti sul suolo italiano, finiscono nelle casse della Diez di Dubai, una Fze (free zone establishment) con tassazione quasi nulla. Sono marchi molto visibili in Italia. Per citare qualche nome, sono stati applicati alle patatine Amica chips, al Canta tu e al bambolotto Cicciobello, entrambi prodotti da Giochi Preziosi. Ceci, che prima di conoscere el Diez gestiva la pizzeria Da Ciro a Catanzaro Lido, dichiara di avere un contratto triennale, rinnovabile per altri due anni, con la Ssc Napoli di Aurelio De Laurentiis che ha intitolato lo stadio di Fuorigrotta al fuoriclasse argentino.

 

Sia Ceci sia Morla si presentano come baluardi contro una parentela anaffettiva e famelica. Il loro rapporto economico sarebbe nato come conseguenza naturale di un tifo fanatico per il fuoriclasse nato a Lanús, nella cintura meridionale della capitale argentina.

 

La fede di Ceci è ben espressa dal nome Mara Dona dato alla figlia, con un’eco della cinematografica Mara Canà, moglie di Oronzo Canà-Lino Banfi ne L’allenatore nel pallone. Al di fuori del folklore da ultrà, i due procuratori si tengono stretti i mandati di Diego e proclamano di lavorare non solo per se stessi ma anche per i parenti ingrati. Ceci ha dichiarato a L’Espresso di avere versato agli eredi almeno tre fatture per 123, 127 e 600 mila euro. La cifra più alta consisterebbe in un recupero crediti dal Venezuela ottenuto grazie al gruppo granario Casillo, che con il regime di Maduro ha decine di milioni di crediti e che sponsorizza il Bari calcio, altro club di proprietà della famiglia De Laurentiis.

 

Ceci ha convalidato il suo accordo con il timbro delle Courts emiratine. Per lui, come per Morla, la spartizione dei ricavi è fifty-fifty, una percentuale da sogno anche per il procuratore più esoso.

 

Sul versamento della quota dovuta agli eredi ci sono state polemiche pesanti, per esempio fra Ceci e Diego junior, che vive sul litorale Domizio e ha l’allenato nelle serie minori dopo una carriera nel beach soccer. A maggio 2023 il primogenito di Maradona ha commentato con parole molto dure la presenza di Ceci allo stadio per i festeggiamenti del terzo scudetto del Napoli in una storia sul suo profilo Instagram: «Gli sciacalli alla festa che cantano ed in tv che fanno i pagliacci. Arriverà il tempo che mi diverto io».

 

In attesa che i tempi cambino, resta immutata la tensione fra chi si divide il tesoro di Maradona. Un esempio fra tutti è la causa per appropriazione indebita intentata dal Pibe de Oro all’ex moglie Claudia presso il tribunale di Miami nel 2015, quindi già in epoca Morla e due anni dopo la firma di un accordo tombale fra i due ex coniugi. Villafañe è stata accusata di avere sottratto denaro all’ex marito per acquistare sei appartamenti in Florida. A ottobre del 2023 il tribunale di Miami ha decretato la sconfitta dei ricorrenti che, dopo la morte di Diego, erano i tre figli “non Villafañe” ossia lo stesso Diego junior, Jana e Diego Fernando, autore inconsapevole di una prestazione da Guinness dei primati per avere perso un processo alla fresca età di dieci anni.

 

Mentre Ceci lavora nell’ombra, Morla è sovraesposto e raramente si nega alle telecamere. L’avvocato sarà uno dei testimoni nel processo per il presunto omicidio di Maradona per avere presentato a Diego lo psicologo Carlos Díaz, uno degli otto sanitari messi sotto accusa dai giudici di San Isidro.

 

Fra Morla e le figlie del campione, soprattutto Gianinna che sostiene la tesi del complotto contro il padre, è una lite dopo l’altra. Sul piano civilistico, la più recente si è svolta davanti a una corte europea. A gennaio 2021, appena due mesi dopo la morte di Maradona, il fondatore di Sattvica aveva tentato di registrare altre sigle in base a fogli senza data firmati da Diego. Nel novembre del 2023 l’Euipo, l’organismo dell’Ue che tutela la proprietà intellettuale, ha accolto il doppio ricorso dei cinque figli contro Sattvica. La sentenza dell’Euipo è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue l’8 gennaio 2024. Sattvica è stata condannata a pagare le spese di giudizio agli eredi.

 

Nonostante questo, la società di Morla continua a firmare contratti che la stampa argentina valuta in un centinaio di milioni di dollari l’anno in giro per il mondo. Tra gli accordi di peso dell’ultimo triennio ci sono quello con Amazon per la serie “Maradona, un sueño bendito” e con Facebook-Instagram per eliminare contenuti non autorizzati di Diego dai social di Mark Zuckerberg.

 

Ai sette marchi che sono al centro di contenziosi incrociati va aggiunto lo sfruttamento non autorizzato dell’immagine di Diego. Fra i peccati veniali ci sono le Diegokugeln, le “palle di Diego” ispirate ai cioccolatini intitolati a Mozart e offerte dalla pasticceria napoletana Bellavia. Sulla confezione non c’è il cognome del calciatore ma la sua sagoma e la dicitura “Ricomincio da 3” con lo scudetto. «Per quieto vivere abbiamo inserito solo il nome di battesimo», racconta Germano Bellavia che è anche un attore noto per i film di Nanni Loy e per la soap opera Rai “Un posto al sole”. «Si tratta di un atto d’amore verso di lui dopo la vittoria del terzo scudetto. Dall’anno scorso abbiamo chiamato il dolce Diegokugeln e l’idea funziona. Non abbiamo pagato i diritti ma se qualcuno avesse da ridire siamo pronti a ritirare il riferimento al calciatore». Il brand maradoniano va forte a tutti i livelli. C’è il panino Diego Armando “Masardona” della friggitoria omonima. A Frattamaggiore, nell’hinterland, c’è la pizza “Mano de Dios”, un impasto a forma di mano che brandisce una mozzarella di bufala. E l’elenco merceologico potrebbe continuare all’infinito. Meno folkloristico è lo sfruttamento dell’immagine di Diego, e del Napoli calcio, da parte dei maestri del pezzotto, organizzati dai camorristi dell’Alleanza di Secondigliano.

 

 

La vulgata afferma che Diego non ha mai contrastato l’abuso del suo nome, anche se ne beneficiava il crimine organizzato. Quello che per il codice penale è il reato di contraffazione, Maradona lo considerava il suo regalo al popolo dei vicoli, una sorta di graziosa elargizione da re borbonico. È il lato oscuro del mito. Napoli lo ha pesato, lo ha giudicato leggero e lo ha metabolizzato in una forma di idolatria assoluta. Le voci critiche, col passare del tempo, si sono rarefatte.

 

«Diego non era una cattiva persona», ricorda Luca Ferlaino, figlio di Corrado, il presidente che portò in Italia il Pibe de oro a luglio del 1984 con l’appoggio finanziario del Banco di Napoli di Ferdinando Ventriglia e il sostegno politico del sindaco dc Vincenzo Scotti. «Purtroppo su cento persone in una stanza aveva l’abilità di scegliere le peggiori, fossero i membri del clan Giuliano, le donne di strada, i piccoli delinquenti, i manager. Era il tipo che per una comparsata in tv prendeva 200 mila euro e dopo una settimana, quando li aveva finiti, se ne faceva dare duemila per inaugurare una pasticceria. Lo hanno derubato tutti. È sempre stato vittima di se stesso e della sua corte dei miracoli. Ricordo quando gli hanno dato il premio Fifa per il giocatore del secolo. Era il dicembre 2000 a Roma. Diego era pieno di ospiti. Non so i conti che ha lasciato sua moglie in via dei Condotti».

 

Eppure a Capodanno di quello stesso 2000 Maradona aveva rischiato la morte a Punta del Este, la Saint-Tropez dell’Uruguay, dopo i festeggiamenti in compagnia del suo controverso manager Guillermo Coppola seguiti da un coma per doping. Venti anni più tardi a Tigre, Maradona non si è più svegliato. Ma i flussi di cassa prodotti dal suo nome sono in ottima salute e continuano a crescere. Diego rende più da morto che da vivo.

 

ha collaborato Giovanni Chianelli