Inchiesta

Isabel dos Santos, la donna più ricca d'Africa che derubava il suo popolo

di Scilla Alecci, Paolo Biondani, Leo Sisti   22 marzo 2024

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La figlia dell’ex presidente dell’Angola è stata incriminata per 12 reati: da capo del colosso petrolifero di Stato drenava i soldi nei suoi conti a Dubai

Dal suo rifugio super-lusso di Dubai, il Bulgari Resort, nell’isola privata di Jumeirah, «la donna più ricca dell’Africa», come veniva definita Isabel dos Santos, assiste impassibile al crollo del suo impero: una fortuna valutata, quattro anni fa, almeno due miliardi di euro. Un impero nato in Angola, il secondo Paese produttore di petrolio del Continente nero, ricco anche di gas, diamanti e altre risorse naturali, ma con la maggioranza della popolazione poverissima. Dopo anni di successi e fama internazionale, oggi la signora è costretta a dimenticare i suoi 400 mila follower su Instagram, le feste con i divi di Hollywood sulla Costa Azzurra, i viaggi in yacht intorno al mondo, gli inviti ai meeting economici come il forum di Cernobbio, le conferenze di Houston, dove, da presidente del gruppo petrolifero statale Sonangol, amava presentarsi ai colossi del settore come «una manager che si è fatta da sola». Per la figlia maggiore di José Eduardo dos Santos – l’ex militare marxista, eroe della guerra d’indipendenza dal Portogallo che è stato presidente dell’Angola per 38 anni – ora inizia una seconda vita: da imputata latitante.

 

Una caduta documentata da una serie di atti d’accusa che L’Espresso ha potuto esaminare con altre testate giornalistiche internazionali. Il più pesante è il decreto d’incriminazione spiccato nel gennaio scorso dalla magistratura angolana: Isabel dos Santos, 51 anni il prossimo 20 aprile, è ufficialmente sotto accusa per dodici reati, tra cui appropriazione indebita di denaro pubblico, frode fiscale, truffa, abuso di potere e riciclaggio dei tesori accumulati con le presunte ruberie a danno della sua nazione d’origine. L’istruttoria dei procuratori africani è partita da “Luanda Leaks”, un’inchiesta pubblicata agli inizi del 2020 dal consorzio Icij (International consortium of investigative journalists), rappresentato in Italia dal nostro settimanale. Una serie di articoli fondati su una massa di circa 715 mila documenti finanziari confidenziali.

 

Quelle carte riservate mostrano che Isabel dos Santos, negli ultimi quindici anni di presidenza autocratica del padre (rimasto in carica fino al 2017 e morto nel 2022 dopo una lunga malattia), ha iniziato ad accumulare crescenti ricchezze personali, soprattutto in settori regolati e condizionati dal governo: energia, banche, comunicazioni. Ha acquisito il 25 per cento della Unitel, la società dominante di telefonia mobile, che secondo l’inchiesta “Luanda Leaks” era «una macchina da soldi» che «dal 2006 al 2015 ha distribuito utili per 5 miliardi di dollari ai suoi azionisti». Poi ha rastrellato importanti partecipazioni in due banche portoghesi, Bic e Bpi, e in gruppi come Zon Multimedia e Zap Tv. Ha ottenuto pure il controllo della più grande industria nazionale del cemento, Nova Cimangola. Quando è scoppiata la bufera, stava per lanciare una catena di supermercati e società di bevande per distribuire tra l’altro una birra nazionale chiamata Luandina.

 

Il presidete dell'Angola Joao Lurenco

 

Dai documenti confidenziali è emersa anche una serie di trust anonimi, con base a Malta, e di società offshore, con sede in paradisi fiscali come Dubai e Isole Vergini Britanniche, controllate segretamente da lei stessa e dal marito, Sindika Dokolo. Attraverso quella rete estera, la coppia ha acquisito un ricchissimo patrimonio immobiliare, che comprende due ville a Lisbona, tre case di lusso nell’elegante quartiere londinese di Kensington, del valore di 42 milioni di dollari, e un appartamento da 55 milioni a Monte Carlo, oltre a uno yacht da 35 milioni, chiamato Hayken. Isabel era a bordo di quel panfilo, nel giugno 2016, quando è stata informata che il papà presidente l’aveva nominata numero uno della Sonangol, il gigante statale da 14 miliardi di fatturato annuo.

 

A distanza di otto anni, proprio quel colosso petrolifero è la pietra dello scandalo. Nelle 46 pagine dell’atto d’incriminazione si legge che Isabel dos Santos, nata a Baku, in Azerbaigian, ai tempi dell’Urss, cresciuta in Angola, ma oggi «residente in un luogo sconosciuto», come responsabile della Sonangol avrebbe causato perdite alle casse pubbliche «per almeno 219 milioni di dollari». In particolare avrebbe «meticolosamente organizzato un piano per frodare lo Stato dell’Angola, con l’aiuto di persone come Mario da Silva, Sarju Raikundalia e Paula Oliveira». Sono tre collaboratori di fiducia di Isabel dos Santos, che lei è accusata di aver utilizzato per «accumulare potere con l’inganno» e «alterare la governance» della Sonangol. Da Silva è un economista diventato suo consulente personale, al punto da sostituirla (per sua delega) in alcuni Consigli di amministrazione; Raikundalia è un ex dirigente della società di revisione e consulenza Pwc (Pricewaterhouse Coopers), da lei promosso direttore finanziario della Sonangol; Oliveira è un’amica, scelta come intestataria di una serie di società a Dubai, che hanno ricevuto diversi milioni dal gruppo statale.

 

Per capire in quali compagnie offshore fossero finiti i soldi, gli inquirenti angolani, nel gennaio 2023, hanno ottenuto l’autorizzazione a perquisire gli uffici di Lisbona della Pwc e di un’altra primaria società di consulenza e revisione, Boston Consulting Group. L’esame dei documenti sequestrati ha convinto i magistrati a mettere sotto accusa la Pwc, per i consigli fiscali diretti a ridurre (o azzerare) le tasse da pagare in Angola e per i contratti della Sonangol con le sue presunte società personali. Quando la notizia è diventata pubblica, la Pwc ha annunciato di aver aperto un’investigazione interna per identificare e punire i funzionari responsabili.

 

I magistrati di Luanda dedicano un capitolo dell’atto d’incriminazione alle «retribuzioni esorbitanti», incassate in particolare nell’ultimo anno di presidenza della Sonangol: da giugno 2016 a novembre 2017, quando è stata allontanata, lei ha ricevuto 54.448 dollari al mese, mentre in precedenza, da gennaio 2014 a maggio 2016, lo stipendio era di 31.500, con un aumento di circa 19 mila. Negli stessi periodi Raikundalia ha intascato 31.450 dollari al mese, con un rialzo di 7.613 rispetto ai 22.837 di prima. Per valutare questi addebiti, va considerato che l’ex colonia portoghese ha circa 35 milioni di abitanti, in maggioranza cattolici, con un reddito pro capite di 2.080 dollari all’anno: circa 170 euro al mese, come media nazionale. Più di un terzo della popolazione (36,6 per cento) vive sotto la soglia di povertà. E l’economia è fondata sul petrolio: le esportazioni di greggio rappresentano il 75 per cento delle entrate statali.

 

Le accuse più pesanti riguardano le società di comodo che l’allora top manager avrebbe utilizzato per non apparire personalmente. Isabel dos Santos e i suoi collaboratori sono accusati di aver «agito consapevolmente e deliberatamente per beneficiare delle ingenti somme di denaro provenienti dalla Sonangol e quindi arricchirsi illegalmente». L’indagine angolana ha confermato diversi scoop di “Luanda Leaks”, come il ruolo di una misteriosa offshore di Dubai, Matter Business Solutions, che ha ottenuto dalla Sonangol oltre 130 milioni di dollari. Secondo l’accusa, la titolare effettiva sarebbe la stessa Isabel dos Santos. Che avrebbe firmato personalmente, come manager statale, ingenti bonifici a favore della società di cui era la beneficiaria segreta. E che avrebbe continuato a emettere e farsi pagare fatture anche dopo il suo licenziamento.

 

Dopo l’inchiesta giornalistica, erano già scattati interventi legali in diversi Paesi. Nel 2021 le autorità di Berlino hanno multato una banca tedesca per avere concesso prestiti a una offshore a lei riconducibile. Nel giugno 2023 un tribunale olandese ha sentenziato che Isabel dos Santos avrebbe girato illegalmente 52,6 milioni di dollari dalla Sonangol, con falsi atti giustificativi, a una holding controllata da lei e dal marito. E nel dicembre scorso una corte di Londra ha confermato il congelamento di altri beni per un valore di 733 milioni. Mentre le autorità americane l’hanno messa al bando, vietandole l’ingresso negli Stati Uniti.

 

Lei ha reagito alle accuse parlando di «caccia alle streghe». Dopo l’incriminazione, i suoi legali hanno diffuso una nota di protesta: «Isabel dos Santos non vive più in Angola dal 2017. Non è stata informata delle accuse dalla Procura generale di Luanda. Non si è mai rifiutata di rilasciare dichiarazioni ai tribunali o di collaborare per la ricerca della verità, ma in Angola non ha potuto essere ascoltata». Quindi Isabel si è esposta con un’intervista di due ore a una radio angolana, attaccando le indagini: «Il governo e il procuratore generale devono assumersi la responsabilità di queste accuse inventate; è irresponsabile amministrare un Paese basandosi su menzogne».

 

La figlia dell’ex capo dello Stato mostra così di cavalcare il malcontento crescente contro l’attuale presidente, João Lourenço, un altro ex generale che fu anche ministro di suo padre: al potere dal 2017, ha lanciato la campagna di «lotta alla corruzione» e smantellamento del «sistema familistico» del predecessore. Ma negli ultimi tempi, come mostrano le inchieste dei giornalisti di “Nigrizia” che vivono in Angola, anche il governo in carica viene accusato di premiare società collegate a politici e generali delle nuove cerchie di potere. E la popolazione, sempre in miseria, sembra avere perso le speranze di giustizia.