Medio oriente in fiamme

«Non sarò parte del circolo di violenza»: la storia di Ben, che non si arruola per Israele

di Lidia Ginestra Giuffrida da Tel Aviv   15 aprile 2024

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Ben Arad, 18 anni, dovrebbe entrare nell’esercito di Tel Aviv. Invece è il terzo, dal 7 ottobre 2023, a rifiutare la coscrizione per motivi politici

Nella frenetica stazione di Tel Aviv, tra militari armati che presidiano gli ingressi e senzatetto che chiedono l’elemosina, c’è uno spazio lontano dal tempo del capitalismo bellico. Lontano dagli allarmi bomba, lontano dal rumore dei caccia, lontano da chi va a fare la spesa armato. Insomma, lontano dall’odio e dalla rabbia. È una libreria creata nel 2005, un centro di ritrovo aperto a tutti, viaggiatori e no. È qui che Ben Arad saluta i suoi compagni per l’ultima volta, prima di consegnarsi all’esercito del suo Paese ed essere arrestato. Ebreo israeliano, Ben ha un viso da bambino e uno sguardo timido: ha da poco compiuto 18 anni, avrebbe l’obbligo di arruolarsi nell’esercito di Tel Aviv; invece, il primo aprile ha detto di no. È la terza persona che, dopo il 7 ottobre 2023, ha deciso di rifiutare il servizio militare per motivi politici. «Sapevo da molto tempo che non avrei voluto fare il servizio militare, ma con l’inizio della guerra ho capito che era mia precisa responsabilità rifiutarlo per motivi politici. Volevo gridare al Paese che non intendo prendere parte a questo circolo di violenza», spiega Ben.

In Israele si può ricevere l’esenzione dal servizio militare principalmente per motivi psicofisici o religiosi. Scegliere di rifiutare la leva per ragioni politiche è una presa di posizione chiara e netta rispetto all’occupazione israeliana in Palestina, ma comporta diverse conseguenze. Una di queste è il carcere e il non sapere per quanto tempo ci si resterà. «Andare in prigione non mi spaventa – prosegue Ben, con il viso incassato tra le spalle magre, le mani sudate – la cosa che mi fa più paura è pensare a quando uscirò e tornerò alla vita normale: sarò un adulto, completamente libero e solo al mondo. Gran parte della cultura israeliana è militarista. L’esercito rappresenta una tappa molto, molto importante della vita delle persone e i miei amici sono in maggioranza soldati o lo diventeranno. Sono cresciuto in una famiglia abbastanza militarista, tutti i suoi membri hanno servito nell’esercito. Ma, per quanto le mie opinioni siano lontane dalle loro e per quanto siano difficili da comprendere ai loro occhi, le accettano e accettano me».

Mentre parla, Ben è circondato da musica e canti. Uno striscione recita «buon compleanno»: non è il suo compleanno, ma è l’ultimo giorno in cui può festeggiare qualcosa. Dopo che lui avrà dichiarato che rifiuta di arruolarsi, alcuni ufficiali cercheranno di convincerlo a servire la patria. Quando capiranno il motivo del suo rifiuto, lo porteranno in una cella di detenzione all’interno della struttura di arruolamento e lo tratterranno lì finché non verrà trasferito nella prigione vera e propria. Potrebbe trattarsi di una notte o di poche ore; poi, una volta in carcere, sarà condannato al periodo massimo di reclusione. Che sarà di 30 giorni, senza aver infranto nessuna regola, tranne quella di non prestare servizio militare. Verrà rilasciato durante il fine settimana e dovrà tornare al termine dei due giorni per rifare tutto da capo: passare di nuovo attraverso la lunga fila di persone che si arruolano, dire di no, superare gli interrogatori, la cella e il trasferimento in prigione; e poi, ancora, il ritorno a casa e ogni cosa dall’inizio finché non lo rilasceranno con un congedo permanente «per squalifica». Forse basteranno i primi trenta giorni di carcere, ma potrebbero trascorrere anche mesi e mesi, avanti e indietro dalla cella di detenzione. A giudicarlo non ci sarà nessun tribunale, ma solo gli psicologi dell’esercito.

Attivisti israeliani ristrutturano una vecchia cisterna appartenente a contadini palestinesi in Cisgiordania

 

«Durante la maggior parte della mia vita non ho capito cosa stessero soffrendo i palestinesi – continua Ben – sapevo che c’era una guerra e la gente mi diceva che gli arabi erano un popolo violento, che rifiutava qualsiasi offerta di pace. Quello mi hanno insegnato, quindi è quello che credevo fosse reale. A 10 anni mi sono avvicinato alla politica, ero molto preoccupato per il cambiamento climatico. Con il tempo ho preso una posizione, credo, anti-capitalista; ho imparato che molte grandi aziende sono responsabili in maniera preponderante dell’inquinamento e del degrado della Terra. Ho iniziato a leggere Karl Marx, a conoscere e a comprendere ogni conflitto. Questo mi ha spinto a studiare l’anti-colonialismo e lo sfruttamento dei Paesi del terzo mondo e del Sud globale. E, alla fine, le mie riflessioni negative sul colonialismo si sono applicate all’occupazione di Israele in Palestina».

Come Ben, anche se in modi diversi, altri giovani israeliani hanno raggiunto questa consapevolezza. Esiste una parte, seppure piccola, della popolazione israeliana che è fortemente critica con la politica militare adottata dal proprio Paese nei territori della Cisgiordania occupata e a Gaza. Coloro che si trovano qui, oggi, a sostenere Ben non sono certo le decine di migliaia di israeliani che sono scesi in piazza chiedendo democrazia, ma i pochi che con coraggio lavorano al fianco dei palestinesi in posti come il villaggio di Masafer Yatta o la Valle del Giordano. Una bolla di giovani e giovanissimi ebrei israeliani che stanno provando, controcorrente e faticosamente, a costruire una realtà immune all’identitarismo e al nazionalismo bellico imperante. «Non sono pacifista – ammette Ben – ma non credo in questo conflitto, non credo nel ruolo dell’Idf. Nessuno trae profitto da questa guerra, tranne gli estremisti di entrambi i fronti: i leader israeliani, come Itamar Ben-Gvir e i suoi amici coloni in Cisgiordania che stanno usando la guerra per conquistare più terra, o Hamas, i cui uomini di punta sono quasi tutti comodamente seduti in Qatar. Penso che il destino del popolo palestinese e di quello israeliano sia intrecciato. Se il primo non sarà libero, allora neanche il secondo lo sarà».

Sull’uscio, due persone aspettano intimidite di entrare: sono i genitori di Ben. Sembra impossibile sfondare la barriera che li separa dal resto delle persone nella libreria. Un abbraccio al figlio, un sorriso a chi ha organizzato la festa d’addio e poi scompaiono di nuovo nel buio della stazione. «Non sanno quando tornerò dalla prigione e cosa mi succederà là dentro, ma mi amano, nonostante pensino che le mie posizioni siano folli», si commuove Ben: «Ma io non credo di appartenere meno all’identità israeliana con questa scelta. Penso, semmai, che sto rendendo a modo mio un servizio a Israele, perché sto cercando di fermare una politica di vendetta, una sete di sangue che alla fine tornerà a colpire anche la popolazione israeliana. Così come nulla è cambiato nella mia percezione del popolo palestinese dopo il 7 ottobre. So che la maggior parte della gente vuole solo avere una vita tranquilla, in pace; l’odio non è così potente come la volontà della gente di stare in pace. Spero che un giorno potremo vivere in due Stati e forse, in un futuro lontano, quando ci sarà la pace, si potrà viaggiare liberamente tra Palestina e Israele. E si potrà convivere. Questo è il mio sogno. La maggioranza dei palestinesi non è originaria della Cisgiordania o di Gaza; i palestinesi hanno il diritto di tornare a casa. Sono convinto che ci sia molto lavoro da fare prima di arrivare a quel punto, ma spero davvero che un domani potremo raggiungerlo».

Una foto, adesso, ritrae Ben mano nella mano con il padre, sorridente. Il braccio sinistro alzato per salutare gli amici. In primo piano, i militari; dietro di lui, il filo spinato della struttura di arruolamento. Davanti, idealmente, i suoi giorni tra sogni e carcere.