Cose preziose

«Dietro alle valanghe di insulti sui social si nasconde l'incapacità di sostenere un dialogo»

di Loredana Lipperini   22 gennaio 2024

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Dalla carenza di notizie su ciò che accade a Gaza alla polemica sulle fiabe di Cortellesi: nella mischia digitale si scatena spesso l’odio dei disinformati funzionali. Di coloro che non sapendo argomentare preferiscono buttarla in rissa

La premessa è che quello che sta avvenendo a Gaza è un crimine di guerra e una risposta inaccettabile all’atrocità del 7 ottobre. Lo dice l’Onu, e lo dicono i milioni di persone che manifestano in tutto il mondo, a Londra come a Roma: e, no, non ne sappiamo abbastanza. La seconda premessa è una domanda, difficile: cosa può fare chi si occupa di cultura senza però avere le competenze giuste per dire qualcosa di sensato? Si pose la questione il poeta Franco Fortini nel 1991, in una delle Sette canzonette del Golfo, quando, inorridito dalla «operazione di polizia» che uccise centinaia di migliaia di persone, scrisse: «Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare. (…) Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?». Amarissimo, ma vero.

 

Il che non significa che non si possa fare nulla. Si può fare qualcosa, anzi molto, perché almeno si parli e si racconti. Sui social, però, la modalità è diventata quella che alla fine degli anni Ottanta era quella del conduttore televisivo Morton Downey jr che, ricordava Beniamino Placido, non solo insultava pesantemente i suoi ospiti in studio, ma minacciava di strozzarli, stringendoli alla gola. Un giorno, diceva Placido, ne strozzerà qualcuno sul serio per alzare l’indice d’ascolto delle sue trasmissioni.

 

Su Instagram accade spesso qualcosa di molto simile. Si chiama dissing, si usava nel rap e indicava più o meno una gara di insulti. Nel mondo social si trasforma in call-out, ovvero nell’invito ad andare a insultare qualcuno, e in genere, purtroppo, funziona: è accaduto alla sociolinguista Vera Gheno, sottoposta a dissing in quanto, si presumeva, silente su Gaza, e travolta da tre giorni di ingiurie (al terzo giorno ha anche risposto, per sua ammissione, in modo improprio, ma persino il protagonista di Perfect Days di Wim Wenders sarebbe crollato sotto una valanga di fango di quel tipo).

 

Per uno di quei casi frequenti a cui i social ci abituano, la polemica ha cambiato segno, e dal presunto silenzio su Gaza si è trasformata in regolamento di conti, risvegliando vecchi antagonisti che nulla avevano a che vedere con la questione di partenza e, fiutato l’odore del sangue, si sono lanciati nella mischia, a volte includendo nella rissa anche il discorso di Paola Cortellesi sulle fiabe, che nessuno aveva ascoltato per intero, ma che era un ottimo pretesto per vendicarsi del trionfo del suo film, e giù botte (e qui bisogna ricitare Placido, quando diceva che insulti e botte sono il segno che non si è capaci di argomentare).

 

Ora, non credo che questi episodi segnino il declino dell’attivismo online, come qualcuno si è affrettato a scrivere. Pongono però almeno due problemi. Il primo, ben noto, è che quando una donna ha successo, va punita: pazienza, ci si rimboccheranno le maniche e si andrà avanti. Il secondo è quello proposto all’inizio: come parlare di Gaza, di cui alla fine non si è parlato? Il consiglio sarà novecentesco, ma è quel che ho: studiando, per cominciare, per sapere di cosa stiamo parlando. Dunque, la cosa preziosa di oggi è Hamas, dalla resistenza al regime, di Paola Caridi: che, lei sì, studia il Medio Oriente da anni e che sta girando l’Italia per spiegare, mettere a fuoco, denunciare. Funziona, comunque, più delle botte.