Bengala

«L'era del dibattito è finita, l'informazione è ridotta a passiva digestione di dogmi»

di Ray Banhoff   1 febbraio 2024

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I grandi media hanno perso appetibilità e diffondono una versione unica dei fatti. Fedeli a un’idea, la loro, che è sempre quella giusta. Così, più del racconto, conta il giudizio sul reale di influencer e famosi vari

I media si sono sempre più impegnati a diffondere la convinzione che esista, come il Graal delle verità, una versione unica dei fatti di cui ogni programma televisivo, ogni opinionista, ogni presentatore di Rete 4 o La7 sia il glorioso detentore. L’era del dibattito è finita, questa è l’era dei dogmi, della fedeltà assoluta a un’idea, la nostra, che è sempre quella giusta. Ogni testata snocciola i dati che vuole, ogni redazione tv costruisce il “Credo” nei suoi servizi, la gente a quanto pare diserta sempre più la carta stampata per abbeverarsi a una fonte di più facile fruizione: il video, più passivo, riassuntivo, facile.

 

Tutti in coro: «Tragedia! È colpa del Web, dei social». Ma nessuno si interroga su quanto poco siano diventati appetibili i giornali dei nostri giorni, che, per la maggior parte, paiono scritti da un algoritmo: spesso identici nelle scalette e nei temi, privi di brio, seriosi. Non una prosa che si differenzi, non più un Arbasino, un Buzzati o una Fallaci. La Bild, uno dei più gloriosi quotidiani d’Europa, potrebbe lasciare a casa circa duecento persone per sostituirle con l’intelligenza artificiale, segno che il livello si è talmente abbassato che pure una macchina è in grado di scrivere.

 

Ma avere paura dell’intelligenza artificiale è inutile, se si ha già paura dell’intelligenza umana, del suo porsi dei dubbi. Chi aiuta i lettori a farsi le domande? Più che il racconto del reale siamo sempre più assuefatti al giudizio sul reale ed è così che le idee si confondono. Dare contro una ristoratrice che (forse) ha scritto una recensione falsa diventa “debunking” per Selvaggia Lucarelli, un inglesismo che trae in inganno: pare una faccenda seria, ma è solo uno stratagemma per farsi pubblicità e apparire buoni e giusti (a riguardo leggetevi il bel pezzo “La morte di Giovanna Pedretti è il fallimento del giornalismo” di Gianfrancesco Turano, pubblicato sul sito de L’Espresso) al proprio pubblico.

 

Siamo passati in pochi anni da un’informazione imparziale a una totalmente dottrinale, moralizzatrice. Siamo sempre più in attesa che il nostro pensiero sia legittimato da quelli che sono rimasti i nostri punti di riferimento, figure che fino a qualche anno fa erano politici, pensatori e oggi invece sono influencer, gente di spettacolo, ricchi o famosi vari (mai uno brutto, mai uno un po’ così). Su ogni vicenda i media hanno fretta di schierarsi prima ancora che di indagare.

 

Fleximan, l’anonimo autore dell’abbattimento di una dozzina di autovelox nel Nord Italia è improvvisamente diventato un eroe della Rete. La gente lo acclama nei commenti sui social e il procuratore della Repubblica di Treviso Marco Martani avverte: «Attenti, potrebbe essere apologia di reato». Manco in Corea del Nord azzarderebbero tanto o quantomeno si ascriverebbe “l’apologia di qualcosa” anche alle centinaia di vessatori della ristoratrice morta… La stampa, per i pochi che la leggono, riporta alcuni dati (tipo che siamo il Paese che ha più autovelox in Europa: un giro d’affari di 75 milioni di euro l’anno, che vengono usati per fare cassa sui comuni mortali) mentre non c’è un telegiornale, specie nella tv pubblica, che faccia parola di questi dati. L’attenzione dei servizi si concentra tutta sull’atto incivile dell’abbattimento dei pali, un processo più che un’inchiesta.

 

A cosa serve avere tante notizie, di continuo, sempre nuove, se sopra non ci ragioniamo un po’?