Cose preziose

«Perché l’idea che il povero sia un pigro che non ha voglia di lavorare non muore mai»

di Loredana Lipperini   12 aprile 2024

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Il concetto dei "fannulloni" serve, in realtà, a nascondere l’incapacità da parte di chi governa di garantire giustizia sociale a chi vive ai margini. Al contrario, si sottovalutano le risorse e la rabbia di quanti sono considerati tra gli ultimi

Un tempo la letteratura si occupava di poveri. Molto prima de Le ceneri di Angela di Frank McCourt, successone del 1997, ci fu Un albero cresce a Brooklyn: lo scrisse nel 1943 Sophina Elisabeth Werner con lo pseudonimo di Betty Smith. Vendette quattro milioni di copie, venne tradotto in sedici lingue, la New York Public Library lo inserì fra i libri del secolo. Raccontava la storia dei piccoli Francie e Nellie Nolan, figli di immigrati irlandesi che nel 1912 sopravvivono come possono alla fame e alla miseria. Francie, in particolare, sogna di diventare scrittrice fin dagli anni della scuola, opponendosi a una maestra che la invita a raccontare «la bellezza» e non la povertà, che è «sordida».

 

Ora, il concetto di «sordido» è durissimo a morire. Nei giorni scorsi l’Istat ha detto che le famiglie italiane in povertà assoluta hanno toccato il massimo storico (5,7 milioni di persone), in aumento dello 0,1% rispetto allo scorso anno. Dei nuovi 78 mila poveri, peraltro, alcuni hanno un lavoro, ma è uno dei tanti bad jobs che umiliano e non sfamano. La presidente del Consiglio ha commentato che «la povertà non si abolisce per decreto».

 

In realtà ci vogliono i decreti e ci vuole anche un lungo lavoro culturale che almeno scalfisca la narrazione secondo la quale la povertà è frutto di pigrizia, concetto che precede questo governo: la parola fannulloni piace a tutti, a Matteo Renzi, a Renato Brunetta e ai titolisti di Libero, e a tutti coloro che si aggrappano al concetto di merito. Quando, nel 2018, un gruppo di signore torinesi diede vita a una manifestazione “Sì-Tav”, le organizzatrici rivendicarono con orgoglio il termine «borghese», «che indica generalmente una sana laboriosità», a differenza, si fece intendere, di quelli che vivono sdraiati sul divano aspettando il sostegno dello Stato. E ogni anno, all’inizio della stagione turistica, imprenditori e ristoratori e albergatori si lamentano di non trovare camerieri o aiuto cuochi, causa svogliatezza e, quando c’era, reddito di cittadinanza (che poi non precisino quasi mai l’entità dello stipendio sembra faccenda secondaria).

 

Che una presidente del Consiglio trovi il modo di contestare i dati Istat e, nei ritagli di tempo, di querelare Luciano Canfora dovrebbe sorprendere: ma non avviene, perché ci stiamo abituando a tutto come se fosse la normalità, incluso il vedere Ilaria Salis in catene. Soprattutto, ci appare normale parlare di merito, nel lavoro come nella scuola. Come scrisse Alan Bennett in Una visita guidata, non solo i poveri non hanno voglia di lavorare, ma non fanno nulla per dimostrare che hanno voglia di lavorare: «L’ortodossia corrente ritiene che gli impiegati pubblici facciano il loro lavoro al meglio solo se gli viene chiesto di dimostrare che stanno facendo il loro lavoro al meglio».

 

Dunque, la cosa preziosa di oggi è La vera storia della Banda Hood di Wu Ming 4, in uscita per Bompiani. Parla di Robin Hood, certo: ma la bellezza e la cura con cui viene ricostruita l’antica leggenda e viene narrata la giovanissima comunità di banditi che vive nella foresta di Sherwood restituiscono un pizzico di giustizia alle storie che bisognerebbe imparare a raccontare, e ci insegnano che quelli che vengono considerati ai margini, sordidi, poveri o fuorilegge, hanno molte più risorse, più parole e più rabbia di quanto si creda.