Bisogna partire dal 27 novembre. È tutto scritto nella cartella clinica di quella sera. Il professor De Castro comincia così: "Non è assolutamente possibile e concepibile che all'interno del Dea vi sia un'apparecchiatura desueta che non consente la visualizzazione ottimale delle pareti ventricolari essendo, tra l'altro, sprovvista di seconda armonica". Negli ecografi la 'seconda armonica' è indispensabile per una buona visione tridimensionale del cuore. E non è la prima volta che il pronto soccorso deve fare diagnosi con strumenti ciechi: "Si ribadisce come già avvenuto precedentemente che perdurando una tale situazione", scrive De Castro, "si mettono a rischio gli operatori sanitari di non poter effettuare diagnosi appropriate, talvolta con impatto notevole sulla salute ed evoluzione clinica del paziente, con livelli di criticità assoluti". Il professore non riesce a valutare l'ipotesi di rottura di cuore: "Non è possibile stabilire se vi sia soluzione di continuo per le ragioni sopra menzionate". Poco dopo un altro medico del Dea, il dottor Piero Moretti, sulla base di quell'esame incompleto conclude la diagnosi: "Assenza di versamento pericardico. Non segni di rottura di cuore. Non indicazione cardiochirurgica". Insomma, il caso non è dei più gravi. La stessa notte, all'1 e 30, la signora G. va in arresto cardiocircolatorio. Dal ricovero sono passate sette ore. Alle 2.02 l'ultima osservazione: "Nessuna ripresa dell'attività cardiaca. Si sospendono le manovre rianimatorie e si constata il decesso". Qualcuno avverte i familiari e chissà cosa racconta, perché in fondo alla cartella clinica c'è anche scritto: "I parenti rifiutano il riscontro autoptico".
Il retroscena pazzesco è che al Policlinico ci sono almeno 80 macchine per ecografia. E molte di queste restano chiuse negli studi dei baroni dell'Università. Così l'unità di terapia intensiva coronarica del pronto soccorso e i malati devono accontentarsi di un'apparecchiatura desueta. La questione degli ecografi è una delle prove dello spreco. Il Policlinico Umberto I esegue ogni anno circa 80 mila ecografie. Più o meno metà per i ricoverati e metà per i pazienti esterni. Sono mille ecografie per ogni ecografo. Considerando 250 giorni di lavoro l'anno, fa una media di quattro ecografie al giorno. Poiché il tempo di durata tipico di un'ecografia è mezz'ora, il risultato è questo: ogni macchina, che costa ai cittadini tra i 24 mila e i 200 mila euro, lavora solo due ore al giorno per cinque giorni la settimana. Ovviamente è la media, perché gli ecografi del Dea di sicuro restano accesi molto di più. Quindi, ci sono macchine che funzionano addirittura meno.

Basta un confronto. Sempre a Roma, i laboratori del Policlinico Gemelli dell'Università Cattolica fanno capo a due strutture con 16 primari. All'Umberto I, i primariati sono 40 e i laboratori 133 (censimento 2005) portati ora, sostiene l'ospedale, a 75. Così da anni è il caos. Ogni primario e ogni laboratorio ha le sue apparecchiature per le analisi. Nel senso che non le compra o le affitta l'ospedale. Sono le multinazionali che le producono a offrirle direttamente ai professori. In comodato d'uso gratuito. Questo sarebbe un vantaggio per la sanità pubblica. Ma le multinazionali non fanno solidarietà. E infatti loro guadagnano attraverso la vendita dei reagenti per le analisi. Un affare che vale più del costo delle macchine. Funziona così. Il professore-primario chiede alla farmacia del Policlinico l'acquisto dei reagenti. Non ci sono gare d'appalto, l'unica tentata è stata annullata pochi mesi fa. Quindi il Policlinico compra a prezzo pieno, senza contrattazione. Il risultato è una spesa fuori controllo. Lo conferma il direttore generale, Ubaldo Montaguti, il 13 febbraio davanti alla commissione d'inchiesta del Senato: "Vi è un uso inappropriato delle risorse. Dalla comparazione con il Policlinico Gemelli è risultato che la nostra spesa farmaceutica è superiore almeno del 25 per cento, se non di più". Fanno 30 milioni di euro l'anno di differenza.
Il numero di professori dell'Università a carico del sistema sanitario nazionale come primari è un altro dato ballerino. Nemmeno la commissione d'inchiesta del Senato è riuscita a scoprirlo. Così dice Luigi Frati, prorettore vicario della Sapienza, preside di Medicina e depositario dei destini di tutti i medici del Policlinico e non solo: "Li stiamo riducendo spontaneamente a 164". Il direttore generale Montaguti porta un altro dato: "Oggi sulla carta sono 210". Sulla carta. L'assessore regionale alla Sanità, Augusto Battaglia, un altro dato ancora: "Stiamo lavorando per ridurre le unità complesse del Policlinico, che non può avere 300 posizioni apicali". Se n'era già accorta la Guardia di finanza durante un'inchiesta finita davanti alla Corte dei conti. Secondo la convenzione Regione-Università "le divisioni dovevano rispondere a un minimo di 20 posti letto, mentre i servizi speciali dovevano prevedere da 6 a 12 posti letto". Il consiglio d'amministrazione della Sapienza, invece, "deliberava autonomamente criteri difformi... In tal modo per i servizi il limite è sceso da 6 a 4 posti letto, mentre per le divisioni è passato da 20 a 8. Ciò ha comportato la moltiplicazione di servizi con la medesima attività e la presenza di 67 divisioni e servizi abusivamente attivati". Luigi Frati, 64 anni, numero due della Sapienza, è preside di Medicina dal 1990. L'inchiesta si riferisce proprio a quell'epoca. Duplicando i reparti, il Policlinico deve promuovere più primari dall'Università, assumere medici (400 dal 1990 al '96), tecnici e impiegati. La Corte dei conti calcola un danno di 51 miliardi e mezzo di lire. La sentenza, pubblicata nel 2005, condanna tutto il consiglio d'amministrazione, compreso il preside di Medicina. Tre mesi fa l'appello. Tutti assolti: Frati per non aver avuto responsabilità, la maggior parte degli altri per "cessazione della materia del contendere". Perché l'erario nel frattempo ha recuperato da stipendi e pensioni 14 milioni di euro. Tanto basta nel calcolo previsto dal codice, anche se è molto meno del danno stimato. La sentenza viene resa pubblica il 20 novembre 2006. Giusto sette giorni prima che la signora G. muoia dopo la visita con un ecografo 'desueto'.
Il risultato è un Policlinico con 5.599 dipendenti: 3.543 universitari e 2.056 ospedalieri, più gli esterni a contratto. In tutto, 6.300 persone. "In questo momento stiamo ancora cercando di andare a pescare a una a una le persone", ammette l'attuale direttore in Senato, "perché non siamo in grado di capire dove si trovino... Sulla carta abbiamo 240 dirigenti amministrativi, mentre in realtà ce n'è uno solo che ha le caratteristiche per svolgere il ruolo. Abbiamo lavori di dirigenza complessa che vengono svolte da persone semianalfabete". Il meccanismo delle promozioni e delle indennità a pioggia continua dopo l'intervento della Corte dei conti. Il Policlinico, cioè il servizio sanitario, paga gli stipendi. E l'Università dispone mansioni e qualifiche: spesso in occasione delle votazioni accademiche. Secondo l'ex direttore generale, Tommaso Longhi, è successo nel 2000 a due mesi dall'elezione del rettore Giuseppe D'Ascenzo, quando Università e sindacati universitari concludono un accordo sulle indennità. "Una maggiore spesa per il Policlinico", sostiene Longhi, "di 50 miliardi di vecchie lire, circa 25 milioni di euro, che incidono da allora sul bilancio".
Altro modo per mantenere il potere dentro La Sapienza è trasferire i dipendenti universitari negli organici dell'ospedale. Così guadagnano di più. L'esempio più famoso è proprio il preside di Medicina. Da professore di patologia generale prende uno stipendio dal Policlinico come primario e direttore del day hospital di Oncologia. Un regalo che l'Università ha fatto, senza apparente necessità, ad almeno 700 dipendenti. Con un costo aggiuntivo per l'Umberto I di 26 milioni di euro all'anno. Agli atti del Senato è finito un aneddoto: "Nell'ufficio dove ci sono solo le sette segretarie didattiche del preside Frati, se tutte e sette assumono la qualifica dirigenziale, come si fa a definire le rispettive mansioni direttive?", chiede l'ex direttore Longhi ai senatori: "Adesso mi trovo a rispondere di questo alla Corte dei conti perché una di quelle dirigenti mi ha denunciato per mobbing, perché non sono riuscito ad assegnarle una mansione dirigenziale. Il Tribunale del lavoro ovviamente le ha dato ragione. E ora la Corte dei conti vuole da me 50 mila euro". La segretaria di Frati non è sola. Altri 420 dipendenti amministrativi si troverebbero nelle stesse condizioni: poter far causa al Policlinico come segretari o bibliotecari inseriti nell'organico dell'ospedale.
Bisogna anche curare i pazienti. E in questo clima è tutto più difficile. Nonostante gli esuberi, non c'è abbastanza personale che faccia controlli. Ancora nel 2002 i ristagni di gas anestetico nelle sale operatorie rischiano più volte di intossicare il professor Manuele Di Paola, direttore della scuola di specializzazione di Chirurgia. Né la facoltà di Medicina né il Policlinico si preoccupano di come vengono riparati gli impianti di areazione. La soluzione è esonerare il professor Di Paola, primario di Chirurgia, dalle sale operatorie. Un'inchiesta della Procura tuttora in corso riguarda invece un altro paziente morto al Policlinico: Adriano Nuccetelli, 61 anni, operato il 4 marzo 2005 al fegato e a un polmone. L'intervento riesce perfettamente. L'uomo infatti muore due giorni dopo, ma di embolia. Il fratello, Danilo, medico a Roma, scopre che fino al 2005 all'Umberto I i colleghi della Sapienza non compilano la scheda di valutazione del rischio tromboembolico. E che prima dell'intervento non sarebbe stato somministrato il farmaco anticoagulante: la Seleparina 0,3, un costo per l'ospedale di 19,06 euro a confezione. Al riguardo la cartella clinica è imprecisa. I familiari accusano i medici di turno di averla manomessa. La perizia di un professore dell'Università di Siena dà loro ragione. Ma i consulenti della Procura, due docenti dell'Università Cattolica di Roma, danno invece ragione al Policlinico. Confidare nella serenità di valutazione per le famiglie è praticamente impossibile. Anche perché professori delle diverse università romane siedono nelle stesse commissioni di concorso.
Come quella che qualche tempo fa ha valutato 13 ricercatori per 14 posti nella facoltà di Frati: "Il curriculum scientifico non soddisfa...", scrivono i professori della Sapienza e della Cattolica nel verbale di un candidato, "ma le prove hanno soddisfatto la commissione".