Il premio Nobel Pamuk sta finendo il suo nuovo romanzo: 'Il museo dell'innocenza'. A 'L'espresso' racconta la trama. Di un sentimento rifiutato

L'amore negato

Anche questa mattina sono riuscito a scrivere bene... Orhan Pamuk tira un sospiro di sollievo e sorride. A Portofino vetta i profumi non sono gli stessi del porto. L'aria sa di rosmarino e di fichi maturi. Fa fresco, non ci sono turisti, il sole cala tiepido e distante, e nel pomeriggio sale persino un filo di nebbia. L'ultimo Nobel per la letteratura si è rifugiato per qualche giorno nella quiete del grande albergo che dall'alto domina il Golfo Paradiso per ritirarsi a scrivere. Silenzio, cinguettio di uccelli, le fronde accarezzate da una brezza leggera. Lo sguardo scende in basso, fino al borgo di San Rocco. Sulla sinistra si intravede la spiaggia di Camogli, più in là si allunga Genova. Tutto lontano, molto diradato.

Da poco si sono tenute le elezioni in Turchia  ma Pamuk oggi vuole parlare solo di letteratura. "Sono venuto qui in gran segreto", confida, "e la mia scelta è stata ottima. Dall'alto si gode una vista meravigliosa e sono andato avanti bene nel mio lavoro". Rilassato e felice, lo scrittore rivela a 'L'espresso' la trama del suo nuovo libro. "Si intitolerà 'Il museo dell'innocenza'", spiega lui stesso, "con questi ultimi ritocchi sarà pubblicato probabilmente a gennaio in Turchia, e in Italia uscirà per Einaudi, la casa editrice che cura tutti i miei romanzi, entro il 2008". E poi, continua, entrando nei particolari: "È un'opera molto ambiziosa, a cui penso bene o male da dieci anni. La vicenda è ambientata sempre a Istanbul, la mia città, fra il 1970 e i nostri giorni. Al centro c'è una passione ossessiva e una grande domanda: che cos'è davvero l'amore? Che cosa succede dentro di noi quando siamo innamorati? E soprattutto quali pensieri passano nella testa di un uomo che si è invaghito di una ragazza e si trova davanti al suo netto rifiuto?".

Così anche Pamuk ha deciso di affrontare direttamente un tema difficilissimo, antico, e che i più grandi romanzieri hanno riportato in questi anni all'attualità, dopo decenni di scrittura sperimentale. "È da tanto tempo che ho deciso di interrogarmi su una domanda eterna", continua Pamuk mentre sorseggia un caffè, "una questione sempre valida, per l'uomo di tutte le epoche e che continuerà a riguardare l'essere umano anche in futuro. Perché questo è un argomento che concerne tutti, donne e uomini. È uno dei temi universali della nostra esistenza. E io, per quanto possibile, ho cercato negli ultimi tempi di inoltrarmi in questo argomento infinito". Come lo declina? "All'argomento amore ho voluto collegare la parola museo", risponde, "e cioè la questione riguardante la conservazione delle cose: perché gli oggetti hanno per noi un valore così importante? Perché tendiamo a tenerli e se possiamo anche a tramandarli alle generazioni successive? È pure questo un atto d'amore, no? Da tutta una serie di considerazioni è quindi nata la mia esigenza di parlare dei musei. In questo periodo ne sto visitando a decine, in tutte le città, in tutti i paesi in cui mi trovo a viaggiare. Anche se devo dire che è una cosa che ho sempre fatto. L'idea stessa del museo è una faccenda che mi piace e che mi tocca molto anche da vicino. Infatti la passione che ho per questi luoghi della conservazione degli oggetti è enorme, e negli anni sempre crescente. Farne un libro era per me inevitabile".

È Pamuk stesso a questo punto a inoltrarsi nei dettagli della storia. "Dunque la trama è questa: c'è lui che è un uomo di mezza età, appartenente a una famiglia borghese. Un giovane con studi perfetti, un bel futuro davanti a sé, destinato ad avere una moglie di pari livello. Ma gli succede di innamorarsi di una parente povera e bella. La corteggia, va a trovarla in casa dei genitori come accade anche oggi in tante famiglie turche. E in queste case, in questi ambienti un po' bui, sui soprammobili ci sono tanti ninnoli, quei cagnolini che si trovano in ogni salotto sia da voi sia da noi. I due fanno anche del sesso, ma non subito". E come finisce? "Lei fa i capricci, lo rifiuta", dice Pamuk, sempre più divertito e sempre più rapito dal suo racconto, "e lui arriva alla decisione di volerla sposare. Ma all'improvviso la ragazza muore. E lui è destinato a vivere con il ricordo dell'amata. Non è più una storia d'amore", continua, "ma un pensiero fisso, sullo sfondo di questa Istanbul borghese, e in cui anche gli oggetti dei musei, delle case, diventano un'ossessione. "Insomma", dice lo scrittore, quasi imbarazzato nello svelare i personaggi e i dettagli del libro che sta ancora terminando, "è una vicenda che mi coinvolge e al tempo stesso mi diverte. È buffo raccontarla. È come se, mi si passi il paragone, Tolstoj dicesse: ecco, Anna Karenina alla fine della storia fa questo e quest'altro".

Ride divertito, e vuole andare a fare due passi. "Ha da fare?", propone, "io ho due ore libere. Usciamo un po', andiamo a zonzo e poi ci sediamo da qualche parte a bere qualcosa". Camminare è la sua grande passione: dopo la scrittura. "Mi piace scrivere al mattino presto, sfruttare le prime ore della giornata per il mio lavoro. Anche a Cannes, durante il Festival del cinema al quale mi hanno invitato come giurato, ho chiesto espressamente la possibilità di avere una stanza d'albergo con vista sul mare, e di essere lasciato libero di scrivere al mattino per poi affrontare la visione dei film nel resto della giornata. Ma sono stato un giurato disciplinato. Ho sempre preso appunti e partecipato alle discussioni. Mi è piaciuto molto". Poi, Pamuk svela come e quando scrive. "Sono ordinato anche nelle mie giornate normali. Mi alzo verso le sette, e ancora in pigiama mi capita di sedermi al mio tavolo dove la sera prima ho lasciato i quaderni a quadretti e la penna", confessa. Una vera ossessione, la scrittura: "A volte sono talmente ansioso di controllare il lavoro fatto il giorno precedente e di proseguire che mi siedo a scrivere bevendo il caffè avanzato, invece di prepararmi quello fresco. Non leggo i giornali, se non per sfogliarli nel pomeriggio: il loro contenuto mi deprimerebbe troppo, distraendomi. Al mattino preferisco rinchiudermi e fare la mia dose di pagine: punto a scriverne due, ma se ad esempio mezza pagina esce già bene, considero la giornata di lavoro riuscita, e alla sera mia figlia Ruya capisce subito dalla mia faccia se sono soddisfatto o se il risultato è stato pessimo".

Ma come fa Pamuk a lavorare ora, richiesto com'è da ogni parte del mondo dopo la vittoria del Nobel? "Guardi, in questi ultimi mesi sto saltando da un paese all'altro come un ranocchio. Prima ero negli Stati Uniti, poi in Francia, dopo in Germania, adesso in Italia, più tardi torno in Turchia, infine ancora in Francia e in America. Ma in questo periodo forse è più difficile concentrarmi a Istanbul, dove per le minacce ricevute ho sempre dieci guardie del corpo intorno. Ormai scrivo bene anche in viaggio, quando sono in aereo o in albergo. Non dico che è come lavorare a casa, ma quasi". Pamuk scatta foto in continuazione. Ha una nuova macchina fotografica ("L'ultima l'ho persa l'altro giorno"). La sua non è soltanto una passione. A Stoccolma i giorni del premio mostrava a tutti le foto fatte in compagnia della bella figlia sedicenne (Pamuk è separato). È invece una tecnica ben precisa, che gli consente di immortalare quel che gli servirà per i suoi scritti. Non prende appunti, ma cattura la realtà scattando immagini. "Per il libro 'Neve' (una storia di ragazze suicide a causa del velo, un romanzo per cui qualcuno lo ha paragonato a Dostoevskij, ndr), ricorda, "nella città di Kars, ai confini con l'Armenia, ho usato una piccola videocamera. I contadini del posto mi dicevano: figlio, parla bene della nostra terra. Anche a Cannes ho fatto un mucchio di foto. Alcune le ho date al settimanale turco 'Aktuel'. C'è pure uno scatto fatto ai fotoreporter schierati mentre mi stanno riprendendo".

Di pomeriggio vuole scendere a Camogli. "Avevo sette anni anni quando sono venuto qui per la prima volta. Era il 1959 ed eravamo arrivati con la mia famiglia, in macchina da Ginevra". Passeggia sul lungomare, arriva davanti al porticciolo, ammira le ville arrampicate sui monti. "Devo dire che a quasi cinquant'anni di distanza", afferma guardandosi intorno ammirato, "questi posti non sono cambiati per niente. Portofino e Camogli mi sembrano gli stessi. Le case di diversi colori, i pescatori che fanno le reti, il ritmo lento dei borghi di provincia". Al bar è attratto dalla Lemonsoda. La ordina. "Non la conoscevo", dice mentre sorseggia soddisfatto. Nei giorni seguenti continuerà a chiederla, e quando in un locale gli porteranno invece una soda al sapore di limone, la manderà indietro per una spremuta d'arancia. Mangia frugalmente, grandi piatti di insalata e verdure, accompagnati da una Coca light. Gli piace l'espresso italiano. Al mattino, fresco e spettinato, con il viso ancora pieno di sonno ("Stanotte ho dormito benissimo", mormora soddisfatto in turco) fa colazione con una tazzona di caffè e una macedonia di frutta.

Nella trasferta a Milano non si perde un museo. Un pomeriggio lo passa a Brera, visitando la Pinacoteca e poi il museo Poldi Pezzoli che già conosceva. Ma conosce bene anche il Bagatti Valsecchi, un'ex casa privata della ricca nobiltà milanese dove in passato è stato altre due volte. È lui stesso a sorprendere le guide, mentre ricorda perfettamente alcune stanze ora chiuse per ristrutturazione, e si intrufola fra i teli stesi dagli operai. "Non mi interessano tanto gli oggetti", bisbiglia a un certo punto voltandosi, "ma l'insieme del museo, com'è stato concepito e costruito". È chiaro che sta pensando al libro in preparazione. Difatti, all'uscita, lascia sul volume riservato ai visitatori una dedica che la sua bravissima traduttrice, Semsa Gezgin, riformula in italiano: "Sono venuto in questo straordinario museo per la terza volta. Amo molto questa casa. L'idea e la fantasia che ci sono dietro mi hanno influenzato molto per il romanzo che sto scrivendo, 'Il museo dell'innocenza'. Per me è una felicità essere stato qui ancora una volta. Orhan Pamuk".

Prima di salutare promette di citare la casa nel suo nuovo lavoro. Un'altra ora la passiamo al Cenacolo di Leonardo. Il Nobel si fa spiegare con molti dettagli la tecnica dei colori usata dal genio di Vinci. Poi provoca: "Ma allora non era così straordinario, se le immagini si sono sbiadite!". Vuole infatti una spiegazione completa sull'origine del dipinto. I colori sono un'altra costante dei romanzi di Pamuk, com'è evidente dai suoi titoli ('Il mio nome è Rosso', 'Il libro nero', 'Il castello bianco'). In auto, rientrando, rivela che stava pensando a un altro libro ancora, dal titolo 'Altri colori', una raccolta di saggi, articoli, interviste, uscito in Turchia nel 1999. Per l'edizione italiana lo sta però cambiando al settanta per cento.

Divora le cronache che parlano di lui. Si butta come al solito sul pacco di giornali che vede. Predilige quelli illustrati e li sfoglia compulsivamente: "Questo che cos'è?", chiede? "Ma quel quotidiano è ancora comunista?". Riconosce al volo la rivista 'New Yorker', e la sfila dalla mazzetta: "In uno dei prossimi numeri c'è un mio articolo". Anche quando è all'estero non gli sfugge nulla, sa tutto quel che viene pubblicato e che lo riguarda. Una sera si infila in auto sventolando un libretto inedito in italiano con il proprio volto in copertina. Nessuno dei presenti lo aveva mai visto. "Me l'ha dato un lettore", spiega. Sfoglia in fretta il volumetto: dentro c'è la sua prolusione al Nobel, alcune interviste. "Va bene. Hanno comprato i diritti. È tutto regolare".

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