Distribuito attorno ai fianchi. Pericoloso per arterie e cuore. Il massimo esperto mondiale di grasso maschile spiega come mettere a dieta il sesso forte
Il pericolo per gli uomini è lì, intorno al giro vita. Tramontato il Bmi, l'indice di peso corporeo che per anni è servito a segnare il confine tra qualche chilo di troppo e un rischioso soprappeso, il nuovo nemico dei maschi è l'obesità addominale. A confermarlo è un'autorità in materia come Jean Pierre Després, docente all'Università canadese di Laval e direttore delle ricerche in cardiologia del prestigioso Quebec Heart Institute. Che ha dedicato la vita a studiare i diversi tipi di tessuto adiposo, e gli effetti metabolici che questi possono generare. Per concludere che c'è grasso e grasso. E che la definizione di obesità deve essere drasticamente rivista, per tenere conto non solo del peso, ma anche della sua distribuzione.
Da diversi anni si era visto che il Bmi non è sufficiente a predire in modo efficiente il rischio cardiovascolare, e anche i tentativi di correlare il peso corporeo con la mortalità hanno riservato qualche sorpresa. Per Després la vera novità dell'ultimo decennio di ricerca è l'aver identificato l'obesità viscerale come il principale fattore di rischio. Anzi come una vera e propria malattia metabolica. Che colpisce soprattutto i maschi, portandosi dietro patologie cardiovascolari e diabete. "Gli uomini", spiega, "accumulano cellule adipose nell'addome, mentre la donna in età fertile tende a ingrassare in corrispondenza dei glutei e delle cosce. E a sviluppare grasso addominale solo con l'arrivo della menopausa". A fare la differenza infatti sono gli ormoni sessuali, e in particolare gli estrogeni, gli ormoni femminili, che hanno un effetto protettivo. Tanto che uno studio recente dell'Università di Rochester mostra che nei maschi l'esposizione a ftalati, composti chimici usati soprattutto negli imballaggi che hanno effetti sulla fertilità, è direttamente legata ad un aumento del grasso viscerale e del diabete, proprio perché altera la produzione di testosterone. "Ricerche condotte su individui che hanno cambiato sesso nel corso della vita mostrano che i maschi diventati donne, e quindi sottoposti a trattamento con estrogeni, tendono ad ingrassare su fianchi e cosce, mentre chi è in trattamento con testosterone per assumere caratteristiche sessuali maschili sviluppa grasso addominale", precisa il ricercatore. C'è anche chi ha ipotizzato che le cause possano essere genetiche: una ricerca pubblicata l'anno scorso sul 'Journal of the American Medical Association' mostra che individui di sesso femminile affetti da sindrome di Turner, che hanno quindi un unico cromosoma X anziché due, possono avere una distribuzione del grasso corporeo di tipo maschile: i ricercatori ipotizzano che il cromosoma X contenga alcuni geni destinati a proteggere l'individuo dal grasso addominale, geni che risulterebbero però disattivati quando tale cromosoma è ereditato dalla madre, come avviene normalmente per i maschi.
Qualunque sia l'origine, sono questi i chili di troppo che pesano sul cuore: secondo lo studio Interheart un'indagine su quasi 30 mila persone di entrambi i sessi pubblicata su 'The Lancet', la cosiddetta obesità addominale è sufficiente a raddoppiare il rischio di infarto. E un altro studio recente condotto in otto paesi europei Italia compresa, Euroaspire, evidenzia il collegamento tra grasso viscerale e rischio coronario. Dallo stesso studio emerge un dato allarmante: rilevazioni successive mostrano che persino chi è già in cura per un problema di cuore continua a ingrassare, con un aumento di peso di poco inferiore ai cinque chili rispetto ai controlli precedenti realizzati dalla stessa indagine.
"Quanto basta", chiarisce Després, "per ridefinire il concetto di obesità mettendo in primo piano la localizzazione del tessuto adiposo: che diventa davvero temibile quando si concentra nell'addome, non nello strato sottocutaneo, ma tra gli organi interni sotto forma di tessuto adiposo intraaddominale. Soprattutto se è associato ad altri fattori di rischio come l'ipertensione o alterazioni del metabolismo dei lipidi".
Il pericolo insomma non viene dal grasso sottocutaneo, e nemmeno dalle cosiddette maniglie dell'amore, difficili da eliminare ma tutto sommato innocue. Sembra confermarlo anche un curioso studio realizzato dall'Università di Osaka su un gruppo di lottatori di Sumo. Che mostra come questi individui, nonostante l'evidente obesità, abbiamo una percentuale relativamente bassa di grasso viscerale, e anche basso livello di colesterolo e trigliceridi. Per accertarlo, i ricercatori giapponesi hanno utilizzato la Tac. "E in teoria è proprio questo l'esame che occorrerebbe eseguire sempre per sapere se siamo davvero di fronte a grasso viscerale", spiega Després: "Ma ovviamente non è possibile pensare a questo test nella pratica di ogni giorno". È nata così l'idea di trovare un metodo per consentire anche ai medici di medicina generale di individuare la presenza di tessuto adiposo viscerale e quindi di valutarne i fattori di rischio. "Abbiamo scoperto, e i risultati sono in via di pubblicazione, che per sapere a cosa ci troviamo di fronte è sufficiente misurare il girovita e valutare il valore dei trigliceridi nel sangue", prosegue il ricercatore: "Quando il primo è superiore ai valori desiderati, ma il livello dei trigliceridi è normale, è probabile che il tessuto adiposo sia concentrato soprattutto a livello sottocutaneo. Se invece i trigliceridi sono oltre la norma, è il segnale che il tessuto adiposo si trova all'interno dell'addome. E in questo caso il dato deve essere considerato nel profilo di rischio cardiovascolare".
In futuro insomma il fattore di rischio da tenere presente non sarà tanto il peso corporeo, quanto il giro vita: per essere al sicuro bisogna rimanere sotto i 102 centimetri per gli uomini e gli 88 centimetri per le donne, anche se alcune società scientifiche impongono criteri più severi: per l'International Diabetes Federation i valori limite sono rispettivamente di 94 e 80. "In ogni caso si tratta di un controllo semplicissimo che i medici di famiglia si stanno abituando a fare", spiega Després. Lo studio Idea ( International Day for the Evaluation of Abdominal Obesity), da poco pubblicato su 'Circulation', ha coinvolto 168 mila persone in 63 paesi compresa l'Italia, e 6.425 medici. Che hanno avuto l'opportunità di "imparare" attraverso un brevissimo video come misurare in modo corretto la circonferenza addominale. Si è visto così che il 97 per cento dei pazienti accetta di buon grado questo controllo, in grado di offrire informazioni importanti. "Questo studio rappresenta un'ulteriore conferma", sottolinea il ricercatore: "Oltre ad avere meglio chiarito la relazione tra circonferenza addominale e indice di massa corporea da una parte, e malattie cardiovascolari e diabete dall'altra. Evidenziando una correlazione particolarmente spiccata tra le patologie e la circonferenza addominale, anche in persone che hanno un peso corporeo assolutamente nella norma".
Ma anche per far calare la pancia qualche sacrificio è inevitabile. Pur considerando che il grasso viscerale è il più facile da eliminare attraverso la dieta e l'esercizio fisico, proprio per quelle caratteristiche di instabilità che ne fanno un nemico temibile per le arterie. "Il medico però deve aiutare il paziente, offrendo un programma che prevede un approccio dietetico e attività fisica, con controlli scadenzati nel tempo", ricorda Després: "Abbiamo visto che l'approccio più efficace punta soprattutto a educare il paziente insegnandogli cosa mangiare e come muoversi regolarmente". Partendo proprio dalla relazione tra rischio cardiovascolare e obesità addominale, che deve essere il bersaglio sul quale concentrare gli sforzi. "Abbiamo condotto uno studio su centocinquanta maschi adulti, osservati mensilmente da un nutrizionista e da un esperto di attività fisica. Con un anno di trattamento abbiamo ottenuto un dimagrimento medio di sette chili, e soprattutto una riduzione della circonferenza addominale di otto centimetri. E questo senza utilizzare farmaci", spiega Després. Le terapie infatti entrano in gioco solo in una fase successiva, se le modifiche allo stile di vita risultano insufficienti: "Ma abbiamo visto che l'approccio da noi utilizzato può assicurare miglioramenti importanti sotto l'aspetto del rischio cardiovascolare". E non solo: basti pensare che normalmente più o meno un paziente su due con obesità addominale è in quella che oggi si definisce una condizione di prediabete, definita anche resistenza insulinica o intolleranza al glucosio. "Ebbene, i risultati del nostro studio mostrano che con l'approccio educazionale ed i controlli mensili l'intolleranza al glucosio cala del 50 per cento", conclude il ricercatore: "Senza contare che la perdita di tessuto adiposo intraaddominale fa aumentare il colesterolo Hdl, che ha un'azione protettiva sui vasi sanguigni, oltre a ridurre i trigliceridi nel sangue e la proteina C reattiva, un importante indicatore dello stato infiammatorio e quindi del rischio cardiovascolare".