Cosa ha rappresentato Palmiro Togliatti in quarant'anni di storia italiana. Da L'espresso del 23 agosto 1964

Meno fortunato di molti miei colleghi ho incontrato Palmiro Togliatti solo una volta. Si era nel novembre del '44 pochi mesi dopo la liberazione di Roma, con la guerra che continuava a nord di Firenze sulla linea gotica. Togliatti, a quel tempo, faceva parte del primo governo Bonomi come ministro senza portafoglio, al pari di De Gasperi, Cianca, Ruini, Saragat e Carandini, tutti e sei in rappresentanza dei partiti del Comitato Liberazione.

Al Viminale una mattina si tenne un consiglio cui partecipavano il presidente, i sei ministri e i membri del Comitato di Liberazione toscano. Costoro venivano da Firenze per rivendicare l'autonomia del CLN nei confronti dello Stato centrale che, dopo una vacanza di mesi, tornava a insediare in città i suoi funzionari. Fra gli altri, facevano parte di quella delegazione C. L. Ragghianti, Attilio Piccioni, Tristano Codignola. A titolo privato ne facevano parte anche io e Carlo Levi.

Era un periodo speciale, molto libero, cosicché ministri ed ospiti sedevano allo stesso tavolo senza badare all'etichetta.

In un primo tempo io e Levi ci eravamo seduti su un divano, un po' a parte, ma in seguito, avanzando la discussione, ci avvicinammo. De Gasperi e Togliatti sedevano alla destra di Bonomi; Carandini, Cianca e Saragat alla sua sinistra. Ruini stava in piedi alle spalle del presidente. Era la prima volta che vedevo i nostri principali leaders politici ed è inutile dire con quanta curiosità li osservai.

De Gasperi aveva un'espressione concentrata sul viso cavallino. Egli contrastava le richieste dei fiorentini e dall'aspetto sembrava che la cosa gli procurasse una gran pena.

Carandini, Cianca e Saragat si agitavano, parlavano con calore e sembravano soprattutto preoccupati di fare una piacevole impressione sui visitatori.

Bonomi ascoltava in silenzio. Ruini, alle sue spalle, lanciava delle occhiate in tralice attraverso gli occhiali affumicati, fregandosi di tanto in tanto le mani.

Togliatti pareva annoiarsi. Ascoltava gli interventi dei colleghi tenendo gli occhi suI tavolo e giocherellando col pacchetto di sigarette che aveva davanti. La discussione sui poteri del CLN doveva sembrargli assolutamente futile dal momento che, nonostante i generosi appelli, sapeva benissimo che prima o poi tutti i CLN sarebbero scomparsi. Egli non si lasciava incantare dalle formule sonanti come: «Tutto il potere ai CLN».

Fin dal suo arrivo in Italia aveva dato prova di questa lucidità di giudizio. Nel governo di Salerno, dove i rappresentanti dei partiti litigavano sulla questione istituzionale, il suo intervento era stato decisivo. Con poche parole aveva sgombrato il terreno dalle nuvole ideologiche, mettendo in evidenza i dati obbiettivi del problema, e nello stesso tempo conquistandosi la fama di uomo responsabile, moderato e realista. Aveva in pratica fatto prevalere la tesi del buon senso, che consigliava di far la guerra tutti uniti ai tedeschi e ai fascisti che occupavano ancora mezza Italia, accettando per il momento la monarchia e Badoglio.

Anche quella mattina parlò pochissimo, con molta secchezza, e mentre parlava si fece un gran silenzio. Non c'era dubbio che ciascuno dei presenti attribuisse alle parole un'importanza particolare.

Egli era all'epoca la personalità di maggiore spicco nel mondo politico antifascista ritrovatosi all'indomani della liberazione di Roma. Chi poteva reggere al suo confronto? Bonomi era in pratica un sopravvissuto. Nenni pareva più un uomo da comizio che uno statista. Saragat attirava per il suo spirito brillante, ma dava la sensazione di scarsa solidità. De Gasperi con la sua serietà di montanaro non colpiva certo l'immaginazione. Parri ancora al nord era soltanto un nome, mitico per alcuni, insignificante per i più. A Sforza nuoceva la fama di aristocratico.

Togliatti dunque era il solo che potesse concentrare l'interesse di tutti gli italiani. Sia per chi condivideva le sue idee, sia per chi le avversava era l'uomo dell'avvenire da, cui si faceva, con speranza o con terrore, dipendere la sorte del paese. Lo si guardava con simpatia, con antipatia, con amore, con odio: non certo con indifferenza.

Quelli che più di tutti subivano suo fascino erano gli intellettuali. Senza conoscerlo lo ammiravano e c'era gia chi, con una capacita mimetica straordinaria, ripeteva non solo i suoi concetti ma anche i suoi modi di dire e perfino quella cadenza leggermente strascicata e insinuante della voce che lo faceva somigliare a un ecclesiastico.

E ciò avveniva non soltanto fra i suoi seguaci. Ricordo ancora in proposito l'espressione fra estatica e maliziosa di Luigi Russo, mentre me ne parlava. "Un politico, un vero politico" ripeteva, caricando il termine di quei significati misteriosi che gli attribuiscono di solito ingenui quando vogliono fare i furbi.

Questa fama di "vero politico", che piaceva tanto agli intellettuali, ebbe una nuova conferma nella crisi che si aprì a Roma nel novembre del '45 con la caduta del governo Parri. Si immaginava che operai, sindacati, partigiani sarebbero scesi in piazza, spinti dal partito comunista, per sostenere il governo della Resistenza. Ma non accadde nulla.

Arrivarono sì al Viminale telegrammi di solidarietà, ci furono anche alcuni cortei di dimostranti, ma tutto finì dopo pochi giorni. I comunisti, e di conseguenza i socialisti (che allora godevano di un'autonomia molto ridotta) accettarono il fatto compiuto. Togliatti non aveva creduto opportuno impegnarsi in una causa che, considerata a freddo, non aveva probabilità di successo. D'altra parte egli non amava Parri né ciò che "Maurizio" rappresentava.

Quell'uomo dall'aspetto sofferente e malinconico pareva il tipo classico del politico per sbaglio, pieno di buone intenzioni, di ottimi principi, ma fuori della realtà. L'aveva sempre giudicato come un ingombro, un equivoco da rimuovere (con tutti i suoi appelli all'unione, alla solidarietà, alla Resistenza) per far posto alle vere forze politiche. Cioè ai comunisti e ai democristiani.

Non considerava l'avvento al potere di De Gasperi come un passo indietro nel cammino verso la repubblica e la democrazia, ma come una chiarificazione. Ma, d'altra parte, era convinto di poter manovrare il capo della DC a suo piacimento. Anche questa prova di realismo politico piacque immensamente al suoi ammiratori, nessuno dei quali pareva dare importanza al fatto che la mossa politicamente cosi "geniale" sarebbe piaciuta ancora di più ai liberali, ai monarchici e a tutti i nostalgici del vecchio regime.

Ma chi allora sospettava che in Italia ci fosse un seno pericolo di restaurazione? Non certo, a giudicare almeno dal suo comportamento, l'on. Togliatti. Era cominciato per lui il periodo di maggior prestigio. Anche fra i ceti che di regola avrebbero dovuto considerarlo con ostilità, o almeno diffidenza, la sua personalità s'imponeva. In ogni occasione si presentava non tanto come il capo della classe operaia decisa a sovvertire l'ordine costituito, quanto come il colto, intelligente, brillante antagonista dell'intellighentia borghese.

Al punto da lasciarsi trascinare, con visibile piacere (anche questa era cosa talmente imprevista) perfino in polemiche letterarie e filologiche piuttosto oziose in momenti poco adatti a simili passatempi. Cosi accadde, ad esempio, nella primavera del '47, a proposito di non ricordo quale sonetto, mentre era in gioco la permanenza del partito comunista al governo.

Egli era ben consapevole del fascino che esercitava, e ne godeva. Gli piaceva scherzare, lanciare frecciate agli avversari e nel caso freddare con una parola gli entusiasmi dei suoi stessi seguaci. In proposito si raccontavano mille aneddoti.

Chi invece si divertiva pochissimo con queste storie erano i vecchi compagni che in carcere o nell'esilio avevano immaginato tutt'altro avvenire per il partito. Alcuni di loro, legati ai vecchi ideali e alle vecchie formule di lotta, avevano perfino l'impressione di essere traditi. Essi si ostinavano a credere che gli operai fossero una cosa e i borghesi un'altra, e che l'unica maniera di scuotere i1 mondo capitalista fosse di attaccarlo a fondo, con agitazioni, scioperi a oltranza, azioni di piazza.

Essi vedevano anche con dolore la preferenza che il loro compagno aveva per le giovani reclute spesso uscite dalle famiglie benestanti della borghesia. Era giusto, sì, aprire le braccia ai nuovi, arricchire le forze proletarie d'energie fresche, di giovani colti e preparati; ma forse che fra proletari si doveva considerare solo l'intelligenza e la cultura? Forse che i sacrifici dei vecchi e le loro prove di coraggio e di fede non contavano più nulla?

Si sentivano disprezzati. In realtà era cosi. Togliatti, in vita sua non ha stimato che l'intelligenza (intendendo per essa la visione lucida e spregiudicata della realtà) e la cultura. Cosi per molti anni egli ha tenuto in gran conto l'amicizia di uomini che non avevano certo i titoli d'anzianità, né i meriti di un Grieco, di un Longo, un Secchia, ma che in compenso gli pareva avessero una conoscenza della vita e un'acutezza di giudizio assai superiori.

Ho già accennato alla preferenza che egli aveva per i giovani, formatisi nell'Italia del fascismo e venuti al comunismo negli anni della guerra o poco prima. A determinarla, agivano in lui più motivi. Il principale era forse questo: sentiva che fra loro avrebbe avuto l'udienza che desiderava. Erano più colti, più duttili e totalmente alieni dalle retoriche del sentimento e della morale care ai rivoluzionari dell'800. Avrebbe potuto formarli a sua immagine e somiglianza.

E in questo non s'ingannava. Quei giovani imparavano molto rapidamente. Egli insegnava loro come in politica si debba giudicare i fatti e le persone, non solo per il valore che hanno in sé, ma soprattutto per l'utilità che presentano a seconda delle circostanze; ed essi in attesa di succedergli si esercitavano a mettere in atto quei principi all'interno del partito, nella lotta quotidiana per le posizioni di potere. Nessun movimento politico poteva vantare una scuola simile. Nessun partito ha creato tanti quadri nuovi e di così spiccate attitudini politiche. Ma che cos'e rimasto del patrimonio morale del comunismo italiano, di quel fervore che l'ha sostenuto nella vita clandestina, quando tutti gli altri oppositori del fascismo cedevano e si può dire che, tranne poche eccezioni di gruppi isolati, soltanto i comunisti continuassero la lotta a fondo contro il regime?

In proposito bisognerebbe sentire il parere dei vecchi. Essi sono come persone che non si ritrovano più in casa loro. Vedono che gli usi, le abitudini, le regole, i principi sono tutti mutati. Vedono le energie dei nuovi dirigenti consumarsi in una lotta sorda per il potere. Sono tristi e delusi. Si, Togliatti ha trasformato un piccolo gruppo in un grande movimento nazionale aperto a tutti i ceti. Ma questa "grandezza" del partito non s'è fatta a spese della sua forza interiore?