Chi sta dentro, chi di calcio ci vive, invece vede il resto e ha paura. Perché la mafia è nel pallone. E non è più solo una questione di ultras dall'incidente facile. Di curve che, come a Catania, secondo la polizia, sono in mano alla famiglia mafiosa dei Piacenti, o di gruppi di tifosi napoletani come le Teste Matte e i Niss - Niente incontri solo scontri - infiltrati dalla camorra. Oggi le cosche guardano di nuovo in alto: vogliono controllare il mondo delle scommesse (clandestine e non); tentano di condizionare i risultati delle partite, le decisioni dei giudici sportivi e il valore dei calciatori; puntano agli appalti dei servizi allo stadio; usano il calcio per cementare legami con la politica; sognano il grande colpo sulla scia del clan dei casalesi che con la complicità, secondo l'accusa, di Giorgio Chinaglia nel 2004 voleva rilevare la Lazio per 24 milioni di euro. Mafia, camorra e 'ndrangheta, insomma, pretendono di comandare perché, lo si legge in una lettera tra due mafiosi calabresi sequestrata a Castrovillari, il football ha "un ritorno di immagine incredibile e fatto a livello aziendale porta posti di lavoro e guadagni insperati".
Tra i presidenti c'è chi dice no, come quello del Palermo, Maurizio Zamparini, che prima del blitz del 26 settembre in cui sono finiti in carcere un procuratore di giocatori e un allenatore in affari con la famiglia mafiosa dei Lo Piccolo, ha allontano tecnici e manager troppo chiacchierati. C'è chi pare indifferente come Lillo Foti, il big boss della Reggina che ha ancora al suo fianco, in qualità di vice, Gianni Remo, un imprenditore sotto inchiesta per estorsione, a cui la magistratura in maggio ha sequestrato l'azienda. Remo è cognato del latitante Michele Labate, considerato uno dei capi della cosca 'padrona' proprio della zona dove sorge lo stadio. E c'è infine chi finisce in manette e viene condannato (in primo grado), come Raffaele Vrenna, ex vicepresidente della Confindustria calabrese, presidente del Crotone calcio (allora serie B ora C1), e legato a molti degli uomini della 'ndrina più importante della sua città, quella dei Vrenna-Corigliano-Bonaventura.
Se tra gli imprenditori, come fa la Confindustria siciliana, si arriva a espellere chi paga il pizzo, nel mondo del calcio si procede in ordine sparso. E i casi di Zamparini e Vrenna stanno lì a dimostrarlo. Quando, a Natale 2007, il cane di Rino Foschi, il direttore sportivo del Palermo, si mette ad annusare ossessivamente uno dei regali che il dirigente aveva messo sotto l'albero e dal pacco salta fuori una testa d'agnello mozzata, Zamparini non ci pensa su due volte e porta Foschi dal procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso. Poi avvia una sorta d'indagine interna e capisce che Cosa Nostra ha messo le mani sul settore giovanile dei rosa-nero. Scopre che "cinque ragazzi erano diventati professionisti su iniziativa di Foschi senza che ne avessero le capacità". A quel punto la manovra è chiara: far diventare professionista un calciatore, magari facendogli giocare qualche scampolo di partita in prima squadra, vuol dire aumentarne il valore. Per la gioia del loro procuratore, un avvocato che assisteva tutti i Lo Piccolo, e della famiglia mafiosa Palermo centro, che attraverso un suo uomo gestiva una scuola calcio attivissima in città.

Ma c'è poco da stare tranquilli. Perché le infiltrazioni criminali, a lungo andare, corrono il rischio di far saltare tutto il sistema.

Ma sentite che cosa ha raccontato al pm Eugenio Facciolla, il 23 aprile 2005, un cugino del presidente Pagliuso, il pentito calabrese, Maurizio Giordano: "Nel 2003 ero in carcere a Vibo Valentia assieme ad Alberigo Granata (un pregiudicato, arrestato sia per traffico di cocaina che per l'indagine su Pagliuso) mentre mio cugino stava nella cella di fronte. Tra i due scoppiò una discussione su alcuni assegni. Granata voleva sapere dove Pagliuso li avesse depositati. Fu così che Granata mi spiegò di essere stato solito pagare giocatori e arbitri per scommettere sulle partite. Mi disse che non si aggiustavano solo gli incontri del Cosenza, lo si faceva anche con altre squadre di C1,C2, B, promozione, e qualcuna di A, non di primo piano. I contatti con i giocatori, in genere ex calciatori di grido che scesi di categoria avevano subito una riduzione di stipendio, li teneva lui. Era Granata che aveva il compito di avvicinarli, di organizzare dei festini, anche a base di cocaina, nel corso dei quali li si convinceva a partecipare alla truffa".
Nello stesso interrogatorio il pentito svela inoltre a Facciolla che, per fermare le indagini, era stata posta sulla testa del magistrato una taglia da 100 mila euro. C'è poco da stupirsi. Secondo Sos Impresa, il mercato delle puntate clandestine vale in Italia 2 miliardi e mezzo di euro l'anno. E che sia in mano alla criminalità organizzata è cosa nota. Proprio Sandro Lo Piccolo, il boss palermitano che con i suoi famigliari stava infiltrando il Palermo, al momento dell'arresto aveva con sé una valigetta in cui era contenuta la contabilità del toto nero gestito dalla sua famiglia: fino a 200 mila euro alla settimana solo in città. A Villabate gli uomini della cosca, che per anni ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano, gestivano poi una serie di punti Snai. Nelle loro sale, però, accanto alle scommesse legali si raccoglievano pure le puntate fuori legge. È quasi fisiologico, dunque, che i clan tentino la combine. Il terreno del resto è fertile.
"Da noi molti presidenti di squadre sono mafiosi o mettono i loro uomini di fiducia a dirigerle", denuncia, parlando del calcio minore, don Pino De Masi, parroco di Polistena e responsabile dell'associazione Libera nella Piana di Gioia Tauro. Don Pino si chiede se i futuri campioni, spesso più che a scuola di calcio, non vadano a scuola di 'ndrangheta. Per chi viene dal Nord può sembrare una provocazione. Per chi vive qui e ha visto l'11 dell'Isola Capo Rizzuto (promozione) osservare un minuto di silenzio prepartita, dopo l'omicidio a colpi di bazooka del boss Carmelino Arena, è solo un'ovvia constatazione.
hanno collaborato Arcangelo Badolati, Giuseppe Giustolisi e Paolo Orofino