La finanza corre veloce. L'economia reale vacilla. E i prodotti rischiosi hanno ripreso a circolare. A un anno di distanza dal grande crac, c'è già chi teme una nuova crisi. Soprattutto per l'assenza di regole

Qui scoppia un'altra bolla

Ma com'è possibile che le Borse stiano correndo da oltre sette mesi, le emissioni di obbligazioni statali e private vadano a ruba, i famigerati 'derivati' siano tornati ai livelli record del 2008, l'oro abbia il vento in poppa e, intanto, l'economia reale continui a boccheggiare e la gente non fa altro che parlare di aziende che chiudono o licenziano dipendenti? A un anno di distanza dal grande crac, mentre i messaggi sulla fine della caduta si fanno sempre più tiepidi e si avverte una sempre più eclatante divaricazione tra finanza e vita quotidiana, cresce il partito dei pessimisti, di quelli che prevedono una crisi a 'W', con un nuovo, fatale scivolone nel prossimo futuro.

Le bolle, di solito, esplodono dopo i boom: in Borsa è successo con le azioni dopo la volata della new economy, così come dopo la galoppata delle cosiddette Tigri asiatiche. E la tempesta che si è abbattuta sul globo a cominciare dalla seconda metà del 2007 s'è scatenata perché i prezzi delle case in America erano impazziti insieme alla concessione dei prestiti facili. Adesso succede che, in numero crescente, banchieri centrali e ministri del Tesoro, opinionisti e autorevoli economisti invocano prudenza e dicono: "Occhio alla prossima bolla".

Le banche hanno già ripreso a macinare utili e a distribuire superbonus, sebbene secondo il Fondo monetario internazionale abbiano ancora in pancia titoli tossici per ben 1.500 miliardi di dollari a livello globale. Grazie ai colossali aiuti pubblici e soprattutto senza che, ancora, le cospicue inondazioni di denaro statale abbiano dato una mano ai bilanci familiari e delle imprese industriali e commerciali. Nella prima metà del 2009, scrive il 'Wall Street Journal', nelle 23 principali banche d'investimento, hedge fund, finanziarie e società di trading, si è guadagnato di più che nello stesso periodo del 2007, anno di picco dei listini azionari. Non basta: trader e manager di Wall Street porteranno a casa per l'intero 2009 la bellezza di 140 miliardi di dollari, il miglior 'incasso' di sempre. Il gigante Goldman Sachs, per esempio, è pronta a sganciare 16,7 miliardi di dollari di premi ai propri manager: oltre il 46 per cento in più rispetto al 2008. Allibite, magari pure un po' arrabbiate, le persone comuni sono così passate in pochi mesi dalla paura che istituti di credito grandi e piccoli fallissero a raffica, trascinandosi all'inferno risparmi di una vita (ricordate gli impauriti correntisti in fila davanti alle filiali della britannica Northern Rock, che evocarono gli spettri della Grande Depressione?) alla sorprendente scoperta che le banche, magari guidate dalle stesse persone, godono oggi di eccellente salute. Per Mario Draghi, che è il governatore della Banca d'Italia ma pure il presidente del Financial Stability Board, sarebbe assai opportuno che gli istituti di credito, sostenuti da banche centrali, governi e autorità internazionali, s'impegnassero a rafforzare il proprio capitale piuttosto che studiare gratifiche d'oro per i manager e ghiotti dividendi per gli azionisti.

Il contrasto tra gli eccessi della finanza e la vita di ogni giorno delle persone normali è stridente. Specie in Europa, il rilancio dell'economia stenta, l'occupazione cala e il prodotto interno lordo langue mentre le Borse si sono rimesse in carreggiata in grande stile. A lanciare appassionate grida d'allarme non sono le incallite Cassandre, i pessimisti di professione. Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve (la Banca centrale degli Stati Uniti), ascoltato consigliere economico del presidente Barack Obama, ha detto di essere assai preoccupato. "La crisi non è finita e c'è un sacco di gente che fa i soldi con la finanza". E 'Il Sole 24 Ore', non 'il manifesto', ha scritto, con tono nient'affatto compiaciuto: "Le banche mondiali assomigliano oggi più a fondi che a istituzioni creditizie: più che finanziare imprese e famiglie, speculano sui mercati". A supporto di una presa di posizione piuttosto drastica, il quotidiano della Confindustria sottolinea come, dall'analisi dei dati delle prime 12 banche europee e statunitensi, emerge che nel secondo trimestre del 2009, il 59 per cento dei ricavi sono arrivati da attività di trading, da dividendi e da commissioni.

Kenneth Feinberg, il cosiddetto zar dei bonus, l'uomo che per conto di Obama deve limare i compensi dei dirigenti delle società finanziarie che hanno ricevuto aiuti pubblici nell'inverno scorso, ha elaborato un piano che potrebbe ridurre fino al 90 per cento i premi dei top manager di big come Citigroup, Bank of America e Aig. Una riduzione che vale solo per gli ultimi due mesi di quest'anno e che ha sollevato parecchie critiche, lasciando l'amaro in bocca a un'opinione pubblica sempre più irritata dalla lentezza con cui avanzano le attese riforme in campo finanziario. A giorni è atteso anche il progetto di legge che consentirà al governo degli Stati Uniti di intervenire - cacciando i dirigenti, rivedendo i termini dei prestiti, commissariando la società in tempi rapidi - sui grandi gruppi finanziari. Anche in questo caso non sono mancati rilievi per un approccio che sarebbe comunque troppo morbido.

Dal fallimento della Lehman Brothers e dalla nazionalizzazione della Royal Bank of Scotland è passato ormai parecchio tempo e la sensazione condivisa sulle due sponde dell'Atlantico è che si sia fatto troppo poco (vedere l'intervista al professor Onado qui sotto). Prendiamo il caso dei derivati, quegli strumenti finanziari divenuti tristemente celebri con lo scoppio della crisi. Non tutti gli usi dei derivati sono diabolici, ci mancherebbe. In parecchie situazioni si tratta di 'costruzioni' finanziarie utili alla copertura contro i rischi di sbalzi nei costi delle materie prime, e quindi sono funzionali all'attività di molte aziende. Però la finanza creativa assatanata aveva finito per impacchettare prodotti sempre più complicati e con dentro di tutto, trasparenti come muri di cemento. Era logico prevedere che, essendo stati alla base del crollo globale avviato nel 2007, i derivati sarebbero finiti alla svelta nel mirino dei regolatori. Non è andata così, almeno per ora. Gli sforzi per introdurre nuove regole sul tema, rendendo obbligatori gli scambi sui mercati regolamentati, e costringendo chi li impiega ad aumentare le garanzie patrimoniali a copertura dei rischi, si sono scontrati - perdendo - con le resistenze delle lobby interessate a mantenere lo status quo. Aumentando gli accantonamenti necessari per operare sul mercato dei derivati, spiega un articolo di 'Business Week', diminuiranno i quattrini da destinare agli investimenti. Secondo il settimanale, società quotate come la tedesca Siemens dovrebbero destinare a riserve un miliardo di dollari in più all'anno. E potrebbero essere danneggiati pure i piccoli investitori, visto che la società ha meno soldi per il proprio business. Ecco come si tagliano le unghie alle riforme che, all'apparenza, piacciono a tutti. Intanto, la vituperata industria del derivato ha il vento in poppa: forse il 2009 non sarà da primato come l'anno scorso, quando il valore nominale di tutti i derivati aveva sfiorato il milione di miliardi di dollari, però già nella prima metà dell'anno eravamo a quota 445 mila miliardi, secondo l'International swaps and derivates association.

Per Riccardo Bellofiore, docente di politica monetaria all'Università di Bergamo, il rischio di una nuova bolla finanziaria esiste per due motivi apparentemente semplici e sotto gli occhi di tutti: "Primo, la salute delle banche americane non è buona come appare, perché grazie alle garanzie pubbliche del piano Geithner sui titoli tossici, questi non sono iscritti a bilancio al loro effettivo valore di mercato; secondo perché la ripresa delle economie occidentali è stata sovradimensionata e si basa soprattutto sugli aiuti pubblici, cosicché molti soldi prestati a tassi molto bassi alle banche vengono usati per investimenti finanziari di tipo speculativo".

A favorire le performance dei listini azionari, dunque, non è stata solo l'aspettativa di una ripresa economica, peraltro ancora difficile da pronosticare, specie in Europa: a pompare i rally che hanno fatto schizzare le quotazioni ha sicuramente contribuito la straordinaria dose di liquidità iniettata nel sistema dai governi e dalle banche centrali. E si può ben immaginare che una buona parte di questi sussidi siano alla base di un'altra euforica categoria, quella dei prestiti obbligazionari, gli ormai famosi corporate bond. A ogni emissione, le richieste fioccano. A emettere sono società solide ma sull'esaltato mercato ci sono già almeno 114 miliardi di obbligazioni ad alto rendimento e basso rating, e dunque piuttosto rischiose. Ed è preoccupante la coincidenza del boom di emissioni di corporate bond proprio nell'anno in cui il tasso d'insolvenza cresce al galoppo. Secondo l'agenzia di rating Moody's, nel primo trimestre del 2010 l'incapacità di restituire il debito potrebbe schizzare al 12 per cento. L'anno scorso era solo allo 0,7 per cento. Numeri da tenere d'occhio, e che intanto ingrossano le fila del partito degli allarmisti.

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